TEATRO ESTREMO RIFUGIO - manifesto programmatico

Potrebbe sembrare poco pratico e comunque perdente in partenza, in questa fine di secolo sovraffollata e dominata dalla potenza, della comunicazione planetaria, cercare di comunicare qualcosa con un teatro di ottanta posti dotato di una pedana di venti metri quadrati. Poco pratico e perdente in partenza come un messaggio affidato ad una bottiglia pur sapendo che esiste il telefono.
     Ma non è così. E' stato con una certa sorpresa che in questi ultimi anni del Novecento noi che scrivevamo, che recitavamo che mettevamo in scena cominciassimo a renderci conto come il nostro impulso a comunicare, quello stesso che ci aveva fatto scegliere di vivere facendo quello che facevamo, andasse affievolendosi mano a mano che la comunicazione diventava un valore assoluto invadendo ogni spazio,da quelli planetari ai nostri più intimi  e segreti.Mano a mano che telefoni, fax, televisori e computer ci riversavano addosso il loro ininterrotto diluvio di informazioni, il nostro impulso a comunicare raccontando, recitando e mettendo in scena, si ritirava in una sorta di rattrappita umiliazione. Cosa poteva fare il nostro impulso a raccontare la vita, con le sue regole narrative, i suoi ritmi nascosti da ricercarsi tenacemente, le segrete intenzioni che facevano di uno scrittore un buon scrittore, di un attore  un buon attore, di un regista un buon regista, a confronto col disordinato diluviare dell'informazione che ci metteva drammaticamente davanti alla vita stessa nella sua forma più immediata e violenta. Niente tranne che cercarsi un alleato e, tra questi, quello che appariva più adatto a reggere il confronto, il mercato.

      E così quello che molti hanno finito per fare è stato accettare il fatto che un racconto, un film, un testo teatrale fossero innanzitutto dei prodotti e come tali con esigenze economiche da rispettare, pena l'impossibilità di scrivere quel libro, girare quel film, mettere in scena quello spettacolo teatrale. In sostanza, si era accettato di raccontare la vita non tanto con le regole dell'estetica quanto con quelle dell'economia.
     Sembrava comunque una soluzione. Non lo era e dopo aver provato, sperimentato, essere più o meno scesi a patti e rifiutato di capire anche davanti all'evidenza, abbiamo dovuto comprendere che non era così e che quelle regole economiche e non estetiche alla fine ci avevano condotto a dire qualcosa di estraneo e di molto diverso da quello che avremmo voluto dire.
     Il fatto è che, in sostanze avevamo finito per accettare qualcosa di non accettabile: la legge che qualunque cosa ne valesse un'altra purché vendibile al maggior numero di persone possibile e che qualunque altra cosa fuori da questa legge fosse da evitarsi in quanto antieconomico.Sconcertati, tutto quello che potevamo fare era guardarci intorno con un solo risultato: l'impressione da qualunque parte volgessimo lo sguardo, di vivere in una risacca piena di rottami in quello che forse  è sempre il modo in cui finiscono i secoli, o i millenni, ma non per questo accettabile.
     E' stato a questo punto che alcuni che scrivevano, che recitavano e che mettevano in scena hanno capito che se volevano riprendersi la loro autonomia espressiva dovevano fare una scelta precisa: cercare di rivolgersi non al maggior numero di persone possibile, operazione per forza di cose costosa e quindi condizionante, ma solo a quelle che sentissero la nostra stessa necessità di comunicazione libera e diretta.
     La prima immagine che ci è venuta in mente è stata quella di una stanza dove piazzare una pedana, qualche riflettore e delle sedie per chi volesse come spettatore dar vita con noi a un progetto preciso: una sorta di estremo rifugio, una sacca di resistenza contro la grande risacca dove raccogliere, sotto la tutela di qualche divinità un po' consunta come  Joyce (è lui la silouette del nostro simbolo) o come Dylan Thomas (è lui il poeta del manifesto all'ingresso), le nostre provate energie per comunicare agli altri, un po' come nel finale nella neve di Fahrenheit 451, le nostre esperienze e la memoria di quello che eravamo stati, di quello che ancora siamo e di quello che forse saremo.
     E questa è stata la nostra scelta. Forse per orgoglio o forse per, sostanzialmente, solo per normale necessità di non morire quando si è ancora in vita. La fortuna ha voluto che trovassimo il rifugio in questione in un posto straordinario, una fontana capace di resistere al tempo per quattrocento anni davanti alla più sconvolgente delle viste sulla Città Eterna.Un magnifico posto, per assistere alla fine di un millennio. E poi sopra dell'acqua.
     In ogni caso il posto più pratico, per mettere messaggi nelle bottiglie, chiudere bene il tappo, e affidarli alla Grande Risacca.

                                                                                                                                                 Gianfranco Calligarich