La malinconia dei Crusich - recensione di Cesare de Michelis

Gianfranco Calligarich, La malinconia dei Crusich, Bompiani, pp. 444, € 20,00.

La Storia, quella grande che abbraccia in un destino un secolo intero, nella quale si specchiano riconoscendosi famiglie e generazioni, torna con insistenza nei racconti di questo ricominciamento millenario, e non tanto perché sia necessario evocarne aspetti troppo rapidamente dimenticati o sepolti, quanto piuttosto perché si cerca insistentemente una chiave che li renda riconoscibili, o, ancor di più, un sentimento che tenga tutto insieme e ci appartenga davvero.

Gianfranco Calligarich intitola la saga della sua famiglia dall'anno 1 del '900 sino alla  scomparsa del capostipite alla malinconia che accompagna i Crusich lungo tre generazioni, come un'ombra "feroce e fedele", dalla quale solo la famiglia, "ultimo baluardo", riesce a proteggerli: se quella reagisce all'"infuriare del tempo", all'insignificanza degli avvenimenti, alla sorda confusione che ci circonda, alimentando una sorta di precoce nostalgia della vita; questa, con le sue salde radici terragne, con i vincoli della solidarietà e degli affetti, è la "roccaforte" che evita che l'esperienza si riduca all'aleatorietà del destino.

Il racconto inizia proprio col secolo nuovo, "quando il mondo era ancora un posto immenso, stupendo e facile da vivere", e un giovane uomo "con gli occhi grigi chiuso dentro un nero cappotto da marinaio e brevi sorrisi" è già imbarcato a Trieste, in attesa di salpare verso un futuro tutt'altro che definito, verso una "lontananza da qualsiasi cosa, anche dalla malinconia".

Si comincia dunque proprio dall'inizio, confidando nella sorte e in se stessi, liberi di ogni altro impegno, da qualsiasi dovere, e basta la vista accogliente del porto di Corfù a cambiare la destinazione: il sogno dell'Africa, di Massaua, svapora di fronte alla "piccola città bianca e madreperlacea bardata alle spalle da grandi ulivi".

Già è evidente che al narratore poco importano le ragioni della storia, la consequenzialità degli avvenimenti, i rapporti di causa ed effetto, quanto invece affascinano le premonizioni del cuore, le misteriose pulsioni dell'animo, i moti e i desideri che la sfida di vivere libera improvvisamente: in questo senso risultano particolarmente pregnanti le numerose sorprendenti metafore, come i due sposi invecchiati "in tutto e per tutto simili a due uccelli che dopo aver volato in perduti e grandi cieli africani fossero finiti chiusi nella invisibile gabbia degli anni".

"I fatti di questa storia sono -davvero- realmente accaduti e i personaggi realmente esistiti", ma quel che importa non è la fedeltà della ricostruzione, la precisione dei riferimenti, il rigore della documentazione, quanto il valore esemplare che l'esperienza della famiglia Crusich assume rispetto ai lettori, il ruolo illuminante che ha rispetto a tutte le storie novecentesche, e perciò si rivela decisivo il tono della voce, il suo ritmo ammaliante, la sua cadenza suadente. 

Calligarich sceglie senza esitazione le modalità del racconto orale, insegue le vibrazioni ondose dei sentimenti, inverte l'ordine dell'esposizione, risveglia ogni volta l'attenzione dell'ascoltatore, la scuote e la rinnova travolgente, tenendone desta la curiosità, contando sull'ansia che non si placa.

I Crusich -il cognome è lo stesso del campanaro istriano della Miglior vita di Fulvio Tomizza- sono sudditi dell'impero asburgico, ma infedeli e ribelli, e sono figli della modernità, ma imprevedibili e intraprendenti come gli avventurieri non seguono una strada definita, preferiscono inventarsela profittando delle occasioni, tentando la sorte, e anche rispetto agli schieramenti della politica e delle stesse guerre restano distanti, se non estranei, impermeabili alle ideologie, disincantati, cosicché l'immagine del '900 che abbiamo di fronte ben poco somiglia alla vulgata.

Semmai a sedurli e a sedurci sono le mitologie del tempo, quelle esotiche dell'Africa primitiva e selvaggia cui cederanno per oltre un decennio, quelle tecnologiche o meccaniche dei grandi camion che attraversano montagne e deserti, l'ostinata fiducia nella capacità di cavarsela in ogni situazione, il coraggio col quale sfidano qualsiasi pericolo.

 

Cesare De Michelis

 

Principessa - recensione di Cesare de Michelis

PRINCIPESSA, di Gianfranco Calligarich, Bompiani, pag 171, 16 euro  

Gianfranco Calligarich è scrittore al tempo stesso generosamente prolifico e straordinariamente parsimonioso, se per un verso ha lavorato tutta la vita scrivendo per i giornali, il cinema,  la televisione e il teatro, per l'altro alla letteratura -verrebbe di scriverla con la maiuscola, la Letteratura- ha donato, compreso quest'ultimo Principessa (Bompiani, pp. 176, € 16,00), soltanto quattro libri smilzi, ciascuno dei quali tuttavia esercita la fascinazione maliosa e inquietante dei romanzi che toccano nel profondo.

Lasciamo perdere gli altri per ora, e proviamo a spiegare perché Principessa non è affatto un racconto di droga, come invece si presenta, ma una riflessione lucida e disincantata sulla difficoltà di essere se stessi in una società dove prima di tutto si deve accettare un ruolo riconoscibile dagli altri e dal quale è difficile se non addirittura impossibile uscire senza perdersi irrimediabilmente.

Chi racconta è un corriere della droga che giunto a Milano non riesce a consegnare la merce perché il ricevitore non si trova e quindi, inseguito dai debiti di gioco che aspettano di essere saldati, cerca riparo, nascondendosi nell'anonimato della periferia metropolitana, affittando provvisoriamente una stanza -un nido- da un silenzioso disegnatore, che ben presto rivelerà una doppia vita, poiché la notte si trasforma in un travestito, senza contare che la domenica diventa un figlio modello e quando può è un cinéphile tutt'altro che sprovveduto.

Tra i due comincia una dura partita che ha per posta il tesoro che l'affittacamere deve avere messo da parte nella sue avventure notturne e nasconde nella sua camera perennemente presidiata: il corriere è glaciale nella sua disincantata razionalità e compie ogni mossa con la determinazione del giocatore di scacchi, sordo a qualsiasi pulsione affettiva,procede perciò circuendo e seducendo senza pietà la sua vittima, che puntualmente cade nella trappola, senza tuttavia esporsi a troppi rischi, anzi a sua volta coinvolge il carnefice nel tran tran familiare con la madre, così finalmente riempito di una storia carica di attese.

La relazione tra i due resta sospesa nell'arco delle tre settimane della loro convivenza,  lasciando affiorare i desideri e le emozioni di entrambi, trattenuti certo dalla prudenza e dall'ansia di compromettere quell'ordine nel quale si muovono protetti, appunto, dal ruolo che ciascuno ha scelto per sé, ma al tempo stesso in ogni momento tesi e vibranti, come del resto è inevitabile sfiorando i confini dell'eros e quegli altri non meno conturbanti della paura, che è minacciosamente onnipresente.

Se Principessa -è il nome d'arte dell'affittacamere- rimane seduta "con le mani strette tra le cosce. Come per stringerci dentro tutta la sua infelicità", il corriere, proprio quando l'ha vinta, vedrà finire "la pallina della roulette nella casella sbagliata", ma la storia non è conclusa, soltanto ha chiarito che i ruoli non si cambiano e che solo l'averlo progettato è colpa grave che rimescola le carte del destino.

Mentre nello scenario nebbioso dell'inverno milanese -decisivo per l'ambientazione del racconto- l'orizzonte smarrisce i contorni e la vista inevitabilmente si appanna, la ruota della fortuna si rimette in moto, ponendo termine a quel tempo sospeso durante il quale la ragione si era illusa di tenere a bada quel "Comandante Segreto" che scombussola qualsiasi piano e ne rivela le crepe: il sentimento, o il desiderio incontenibile e prepotente, prende lui le decisioni definitive, violando l'obbligo del rigore, la linearità di un percorso, indifferente ai ruoli, alle regole, agli schemi.

A questo punto la coriacea ragione del maligno, che si è illusa di guidare la sorte, ha davvero perduto e la sue regole non valgono più, a cominciare dalla prima, che recita "adeguarsi alle circostanze. Sempre. Soprattutto se si è alle corde", e il tarlo del dubbio, il tormento del rimorso, spogliano i personaggi delle loro divise, restituendoli indifesi al giudizio, alla coscienza, alla colpa.

La Letteratura è tutta qui, nell'invenzione che capovolge il senso prevedibile del racconto, tanto più se di genere, come questo vuole apparire, e rivela quell'altro, segreto, che naturalmente vale ben di più.

 

Cesare De Michelis

 

Recensioni de "L'ultima estate in città" - Ed. Garzanti (estratti)

Love Story all'italiana, brillantissima in superficie, divertente nel vero senso della parola a volte esilarante ma nel profondo terribilmente amara e struggente, straordinariamente "moderna". Se non si trattasse di un'opera prima lo si direbbe scrittore di consumato mestiere. Tutta una folla di personaggi, un campionario scelto con cura, soprattutto però la protagonista, Arianna, che va a poco a poco delineandosi come una delle figure di donne più affascinanti della nostra narrativa contemporanea. Storia dolente, ma i suoi connotati si chiamano ironia, umorismo e verve. Squarci di poesia lo illuminano nei vagabondaggi notturni e diurni attraverso l'incantata città là dove essa non è stata ancora mortalmente offesa.
Vladimiro Lisiani "La Notte"

E' davvero sconcertante che un libro come questo di Calligarich abbia dovuto attendere un premio per essere pubblicato. Non si tratta solo di un romanzo ben scritto ma di qualcosa di più, il recupero di una età, di una cultura, il revival di una generazione perduta di Scott Fitzgerald, la presa di coscienza, come ha acutamente notato Cesare Garboli, di una gioventù che rinuncia alla ideologia della giovinezza. Dopo il vuoto e volgare consumismo degli ultimi anni, leggere un romanzo così costituisce uno stress.
Sergio Maldini "Il Resto del Carlino"

Calligarich ha doti eccellenti di narratore, il libro è dissacrante e ironizza con efficacia sulla vita del protagonista che si muove tra gente mediocre, vuota, quasi folle, con note convincenti soprattutto quando Roma si apre vasta e varia con gli incontri e le passeggiate notturne e che diviene la vera protagonista della storia.
Dante Maffia "La Fiera Letteraria"

Così come "Gli Indifferenti" di Moravia non sono altro che emanazioni della ignavia borghese e burocratica della Capitale i protagonisti dell' "Ultima estate in città" sono imbevuti nell'atmosfera barocca e funebre che incombe sulle strade capitoline come una cappa di nuvole sciroccose.
Giuseppe Bonura "L'Avvenire"

Il romanzo è senz'altro il più bello tra quelli proposti nella corrente stagione dai nostri narratori. Letto in dattiloscritto da Natalia Ginzburg e premiato con il Premio Inedito rivela un talento narrativo e un piglio stilistico inconfondibili specialmente nei dialoghi.
Domenico Porzio "Panorama"