Le Navi Bianche, G.C.

 

Per il Convegno sulle Navi Bianche del 13 ottobre 2012

 

      E' stato senza saperlo che anch'io ho preso parte a quella che poi qualcuno ha chiamato Epopea delle Navi Bianche. A quattro anni passo ancora troppo vacillante e reso ancora più incerto dai rollii della nave, mondo intorno ancora troppo vasto e misterioso, occhi troppo stupefatti puntati su quella azzurra immensità che quando riuscivo a sfuggire da mia madre andavo a spiare tra la folla ammassata sui ponti - azzurra immensità che avrei saputo chiamarsi mare - insomma tutto ancora troppo, per sapere che stavo addirittura girando intorno a uno dei cinque continenti del pianeta per raggiungere quella cosa che mia madre e sua sorella con gli occhi lucidi e i miei fratelli Paolo e Uberto, con dieci e dodici anni più di me con eccitazione, chiamavano Italia.

      Avevo ben altro di cui preoccuparmi. Prima di tutto quel maledetto cugino Sandro con tre anni più di me che ogni giovedi quando sulla nave distribuivano quella delizia fredda che non conoscevo chiamata gelato lui, finito il suo, cercava di leccare anche il mio. E, soprattutto, cercare di sputare senza essere visto quelle maledette acciughe salate che mia madre pretendeva di infilarmi in bocca contro il mal di mare nonostante io di mal di mare non soffrissi.

   Probabilmente dovevo essere stato immunizzato da ben altri disturbi. Quelli intestinali che mi avevano torturato in certe baracche circondate da filo spinato che i grandi chiamavano campo di concentramento - filo spinato sotto il quale i miei fratelli strisciavano per andare dai pastori abissini che pascolavano le loro bestie intorno al campo a prendere il latte per i miei mal di pancia - e che dopo l'imbarco erano poi scomparsi da soli forse grazie all'aria di mare o forse al buon cibo che si mangiava sulla nave.

      Ero stato notevolmente seccato al punto di piangere a dirotto tra le braccia di mia madre e di sua sorella Giusta, la madre del maledetto Sandro, quando avevamo lasciato il campo di concentramento. Avevo le mie ragioni. Prima di partire per Massaua infatti una ausiliaria inglese mi aveva sequestrato il mio bicchiere di alluminio che era uno di quei bicchieri retrattili che si potevano abbassare fino a farli diventare una scatoletta bassa e tonda e sfido chiunque a non piangere se glielo avessero sequestrato. Beh, comunque eravamo partiti. Di notte. Prima caricandoci su dei camion e poi su un treno che era passato da Asmara dove tutti gli italiani che avevano scelto di non partire avevano acceso tutte le finestre delle loro case e da quelle finestre gridavano nella notte i nostri nomi per salutarci. Era bella quella notte africana piena di luci e di voci che ci chiamavano per nome e mia madre anni dopo aveva detto che era una notte che non avrebbe dimenticato per tutta la vita.

      Poi a Massaua eravamo stati imbarcati su quella grande nave che si chiamava Giulio Cesare per quel viaggio di quasi due mesi intorno all'Africa. Viaggio che, a parte per la presenza di mio cugino, era stato molto felice. Non eravamo soli nella grane vastità del mare. Con noi viaggiava a poca distanza anche un'altra nave carica di altri italiani che si chiamava Duilio. Un nome che era sulla labbra di tutti e che, le volte che si avvicinava abbastanza alla nostra nave da vederla, tutti gridavano dai parapetti salutandola e agitando le braccia. Tre altri nomi che anche quelli erano sulle labbra di tutti erano Capo di Buona Speranza, la punta in fondo all'Africa che avevamo girato in mezzo a una grande tempesta, Las Palmas, che era un'isola dove la nave si sarebbe fermata per fare rifornimento e che voleva dire che il giro dell'Africa era ormai quasi finito e sopratutto Gibilterra che voleva dire che ormai la nave era quasi arrivata in Italia cosa che faceva che quello fosse il nome che tutti dicevano con più eccitazione.

      Io l'avevo vista, Gibilterra. Infilandomi tra la gente che si assiepava ai parapetti gridando, salutando e agitando le braccia anche se quelli che stavano a Gibilterra erano inglesi vale a dire quelli con cui eravamo in guerra. Gibilterra era come una montagna a picco sul mare e forse chi lo sa, la gente salutava contenta perchè era la prima montagna che vedeva dopo aver visto per tanto tempo solo mare oppure perchè ormai l'Italia era vicina e, anche se eravamo in guerra con loro, chi se ne fregava degli inglesi.

    In tutta quella contentezza ero anch'io molto contento anche senza sapere bene perchè. Il fatto è che a quattro anni si può essere molto contenti per un sacco di cose anche senza saperne la ragione. Magari solo per il fatto che il vasto e sconosciuto mondo che hai intorno lo senti istintivamente per quello che è. Un posto pieno di tutte le possibilità e le sorprese che, con un po' fortuna, ti stanno aspettando nella vita e dove potrai spendere il bottino che ti è stato dato venendo al mondo. Bottino che per il momento è ancora intatto nelle tue giovani vene. Insomma a quattro anni si hanno le vene piene di soldi e io, probabilmente, stavo sentendo di avvicinarmi a un primo fantastico acquisto che la vita stava riservandomi.

      Quel primo acquisto che era avvenuto quando la nave era arrivata a Taranto. Pochi giorni prima quell'otto settembre 1943 che aveva fatto sprofondare il paese dove stavamo arrivando in un caos dove nessuno sapeva più contro chi combattere per cui tutti combattevano contro tutti. O fuggivano disperati da un posto all'altro cercando di tornare a casa attraversando il paese e magari rubando nei pollai per non morire di fame. Ma paese dove comunque qualcuno alla fine del viaggio si era preoccupato di venire a accoglierci sul molo del porto mentre noi scendevamo dalle passerelle. Non più felici ma angosciati e spaventati per via delle notizie della guerra che erano arrivate a bordo per via radio e, un'ora prima del nostro arrivo, da un bombardamento avvenuto sul porto. A venirci a accogliere erano state delle donne pallide e con sorrisi stirati che, vestite di bianco e con una croce rossa sul petto, c'erano venute incontro offrendoci come benvenuto, per quello che mi riguardava, la cosa più fantastica che avessi mai messo in bocca. Qualcosa che quelle donne prendevano da delle cassette di legno, qualcosa che tenevano tra le mani e simile a un insieme di tante biglie come quelle con cui giocavo inginocchiato a terra a Asmara e tenute insieme da dei rametti. Ma non rotonde e dure come le biglie di Asmara, quelle tenute insieme dai rametti, ma morbide, ovali, quasi trasparenti e lucenti quando venivano battute dal sole di settembre e che, quando le mettevi in bocca, rilasciavano un succo più dolce dello zucchero e capace di inebriarti al punto di farti dimenticare qualsiasi paura. Qualcosa che tutti, almeno per un momento anche loro liberi dalla paura, chiamavano uva.

      Era stata per me una scoperta così fantastica che avevo strepitato e fatto un iraddiddio per portarne un grappolo, si chiamavano così quegli insieme di biglie dolci, anche sul treno affollatissimo su cui ci avevano caricato per portarci da Taranto su verso il nord. Treno che il giorno dopo era stato anche mitragliato facendoci scendere tutti di corsa dalle panche di legno dove dormivamo per ripararci sotto i vagoni fermi nella campagna. Tra i binari di ferro e sui sassi grossi e duri della massicciata. E dove, tra le braccia di mia madre, i miei due fratelli ridendo, perchè loro erano grandi e non si spaventavano mai, mi avevano raggiunto per portarmi il mio grappolo e poi mangiando l'uva insieme a me in una comunione che sarebbe durata tutta la nostra vita.

      Beh, questa è la mia storia riguardo la faccenda delle Navi Bianche. E se non è un'epopea questa non so cosa possa esserlo. Sarebbe stato solo molti anni dopo, leggendo un libro intitolato appunto le Navi Bianche scritto da un signore di nome Bernardo Valentini Vecchi che era stato uno degli organizzatori di quei viaggi, che avevo potuto venire a sapere cosa c'era stato dietro tutta quella epopea. Un gran lavoro anche diplomatico tra le nazioni in guerra per risolvere un sacco di problemi. Infatti si trattava di andare con quelle navi avanti e indietro con l'Africa senza poter passare dal canale di Suez, proibito per ragioni strategiche dovute alla guerra, per riportare a casa in Italia, facendo tutto il giro dell'Africa, le famiglie dei soldati italiani fatti prigionieri o uccisi nella guerra e le cui famiglie rischiavano di essere deportate dagli inglesi in Sud Africa e in India.

      Non era stato facile mettersi d'accordo con gli inglesi, per fare quei viaggi, e erano dovuti intervenire prima gli Stati uniti e poi la Svizzera dove erano stati versati i soldi del riscatto chiesto dagli inglesi prima di poterle fare partire. Poi le navi avevano cominciato i loro viaggi, più di un mese e mezzo per andare e altrettanto per tornare e rifornite di carburante da navi che, sempre per ragioni belliche, le rifornivano in mare arrivando da posti lontani come il Messico.

      Il governo italiano, nonostante fosse in corso la guerra e anche per fare credere al nemico una potenza che l'Italia non aveva, aveva fatto le cose in grande. Per quei viaggi erano state prese quattro grandi navi passeggeri. Il Vulcania, il Saturnia, il Giulio Cesare e il Duilio che, siccome si sarebbe trattato di trasportare donne, vecchi, bambini, e molta altra gente denutrita o malata o disperata attraverso sia i torridi climi equatoriali che quelli rigidamente invernali del sud dell'Africa, erano state trasformate in modo da rendere i viaggi il più sicuri e confortevoli possibile.

    Ogni nave disponeva perfino di sale cinematografiche, biblioteche con oltre seicento libri e perfino discoteche dove poter anche ballare. A bordo c'era anche una tipografia che, grazie alla radio, ogni giorno riusciva a stampare edizioni ridotte di quotidiani italiani come il Corriere della Sera e altri. Ma il massimo era stato fatto per le cucine, dove schiere di cuochi e camerieri ogni giorno cucinavano una grande quantità di buon cibo, e soprattutto per l'assistenza sanitaria. Su ogni nave infatti c'erano un direttore di Sanità, medici chirurghi, pediatri e farmacisti oltre che schiere di infermieri e infermiere con un ospedale con 150 letti, due sale operatorie, una camera per preparare i malati agli interventi chirurgici, una sala parto, gabinetti batteriologici, radiologici e dentistici, una farmacia con dispensario e due ambulatori. Completamente separati a poppa c'erano anche un ospedale per malattie infettive con trenta letti, una sala per infermi gravissimi, una sala per tubercolotici e celle con le pareti imbottite per malati di mente furiosi.

    Per garantire l'igiene, indispensabile dove più di tremila persone venivano imbarcate su uno spazio previsto per mille, tutti quando salivano sulla nave venivano sottoposti a una disinfezione generale con docce, cambi di vestiti e tagli di capelli e, per i bambini, vaccinazione antidifterica. Ma tutti erano così felici di essere salvati che lo accettavano ben volentieri.

       Quanto ai giovani, quelli fino ai sedici anni perchè quelli più vecchi non erano stati imbarcati ma spediti invece in lontani campi di concentramento di altre nazioni, erano stati organizzati come piccoli militari e aiutavano a garantire l'ordine a bordo.

      I pasti venivano serviti in vari turni. Colazione con caffe, latte e marmellata, pranzo con riso o pasta, contorno, frutta e vino, merenda alle con panini imbottiti o pane e cioccolato, e cena con minestra, carne, contorno e frutta e vino. Giovedì e domenica venivano distribuiti anche gelato o dolce. Sì, il gelato come ho detto solo il giovedì. Se riuscivo a salvarlo da mio cugino, naturalmente. I bambini più piccoli poi avevano cibi diversi come latte, farine lattee e minestrine oltre che giocattoli di ogni tipo come bambole, animali di pezza o fucilini. Mentre i grandi potevano avere caffè, bibite e liquori al bar di bordo con prezzi minimi e sigarette distribuite gratis. Insomma una vera manna per gente che fino a quel momento aveva rischiato di morire di fame e di stenti nei campi di concentramento.

    Per le donne poi era una vera pacchia. E i tre parrucchieri di bordo non ce la facevano a accontentare le loro esigenze dopo mesi e mesi che non ne vedevano uno. E così i due calzolai di bordo subissati da richieste per mettere a posto le loro scarpe finite in pezzi.

      Ma come c'erano arrivate quelle donne, quei bambini e quei vecchi su quelle navi? Mi servirò del libro di Vecchi, per raccontarvelo. Ecco cosa dice dell'imbarco sulla prima nave a Berbera.

     “ Sui moli del porto la folla di quei disperati rivolgeva verso la nave volti sudati e piangenti, gli occhi pieni di incredulità. Bambini facevano ciao agitando la manina in braccio a donne alcune delle quali avevano gonne fatte con stoffe bianche, rosse e verdi come la bandiera italiana. Per diventare loro stesse delle bandiere, insomma. Spingevano i bambini verso di noi gridando “questo è nato qui!”. La prima che era salita era una madre che cercava di salire sulla scaletta con due bambini in braccio mentre un terzo le si aggrappava alla gonna. I marinai si erano precipitati a prenderli tra le braccia tra grida, raccomandazioni, risa e pianti. Molte donne si abbracciavano piangendo come se invece di partire dovessero dirsi addio per sempre. Qualche vecchio era coperto da elmetti di soldato della campagna etiopica. Tutti ci facevamo in quattro per dissetare la gente che saliva ammassandosi a bordo sotto il sole infernale. Le donne vestivano stracci, abiti da sera raffazzonati, persino pellicce. Calzature di ogni genere, tessuti di ogni colore. I bambini più grandi portavano valige e fagotti più grandi di loro. Quelli più piccoli venivano accolti dalle braccia dei marinai piangendo, urlando e chiamando la mamma. E la cosa commuoveva anche i marinai al punto che piangevano anche loro. Una donna spingeva avanti una torma di bambini e uno lo teneva in braccio. Sono tutti vostri? Avevo chiesto. “Tutti, aveva detto con orgoglio, sono arrivata in Africa con cinque e riparto con otto!”

    “Io ne ho sette”, diceva un'altra donna molto calma. “Gli altri stanno arrivando”, aggiungeva poi come se stesse entrando in un cinema con i biglietti anche per gli altri. Ma quasi tutte arrivando a bordo scoppiavano a piangere. “Dio ti ringrazio”, gridavano, “Viva l'Italia”, gridavano altre. Una era svenuta e due marinai e un dottore l'avevano soccorsa. Lei aveva riaperto gli occhi, “sto bene, sto bene, è solo l'emozione”, diceva. Tutti venivano avviati a poppa dove si precipitavano a bere aranciate e limonate ghiacciate che bevevano avidamente per le ore e ore di arsura passate sotto il sole del porto. Distribuivamo anche ceste di panini imbottiti di formaggio, salumi, carne. C'erano anche ceste di mele e aranci. Tutti non mangiavano da almeno due giorni. Una bambina bellissima e con i capelli sudati mi aveva chiesto se poteva cambiare il suo panino col formaggio con uno col prosciutto di cui era golosa e che non mangiava da mesi. Un marinaio si era precipitato in cucina a cercare del prosciutto e poi glielo aveva portato e io, ore e ore dopo, in cabina, mi ero ritrovato col panino col formaggio schiacciato in tasca e lei per tutto il viaggio di ritorno era diventata per me una specie di figlioccia.

     Ma voi quanti figli avete, avevo chiesto a una donna circondata da un mucchio di bambini. “Quattordici”, era stata la risposta e intorno era esploso un applauso. Un padre macilento invece spingeva avanti sei bambini. Vostra moglie è già salita? Avevo chiesto. “E' morta pochi giorni fa”, era stata la risposta. Allora avevo preso in braccio due dei bambini e avevo raccomandato a un marinaio che li alloggiasse il meglio possibile. Poi quando dopo due giorni di quell'imbarco di disperati la nave era partita tutti si erano precipitati ai parapetti. “Vogliamo tornare”! Gridavano e sotto sul molo c'erano indigeni che rispondevano gridando “Tornate presto! Oppure scrivete! Oppure noi vi aspettiamo!”

    Ecco qua, quello era stato il primo imbarco di quelle famiglie che tornavano in Italia. I viaggi erano stati complessivamente tre, e sempre con le navi a navigare a due a due per farsi compagnia e aiutarsi in navigazione e, quel primo viaggio, era stato accolto, al ritorno, da trombe, fanfare, bandiere e uomini importanti tra cui perfino il Re e la Regina. Le cose erano andate diversamente in quelli seguenti. L'Italia stava perdendo la guerra, non era il caso di fare festeggiamenti e le navi tornavano in un silenzio desolato e teso. Tutto stava rotolando verso il disastro e l'ultimo viaggio era stato quello del Giulio Cesare su cui viaggiavo, comunque felice, anch'io. Bambino di quattro anni arrivato a Taranto nel grande caos dell'otto settembre 43. Ci avevo pensato di tanto in tanto, a quel viaggio, durante il resto della mia vita. Finchè non c'è stata l'occasione di questo convegno e mi hanno chiesto di parlarne.

    Tutto lontano come un sogno, in qualche modo. Ma, ripensandoci adesso, senza riuscire a liberarmi da una segreta, ostinata e forse un po' megalomaniaca convinzione. Che tutto, dall'impresa etiopica per fondare un Impero, alla guerra che era sopraggiunta a sconvolgere tutto il mondo, a quei viaggi organizzati con il coinvolgimento degli Stati Uniti e della Svizzera, a quelle grandi navi trasformate in specie di grandi alberghi e ospedali per venire a prenderci e riportarci a casa facendo il giro di tutta l'Africa, avesse avuto un solo e preciso scopo. Dare alle vene piene di soldi di uno spaventato bambino di quattro anni, spinto coi suoi occhi sgranati e il suo passo ancora incerto in mezzo a un mondo feroce e devastato, il dolce e inebriante sapore dell'uva.

 G.C.