Anima di cane, B.Traven

 

 

da "Storie della foresta messicana" di B. Traven

Un pomeriggio, mentre l'orologio del vicino palazzo di uffici batteva le tre e mezzo, monsieur LeBlanc, un francese proprietario d'un caffè nella Calle de Bolivar, a Città del Messico, notò un cane nero, di media taglia, accucciato accanto alla porta che rimaneva sempre aperta. Ma si era messo in maniera da non dare fastidio ai clienti che entravano o che uscivano. Il cane teneva i miti occhi bruni rivolti verso LeBlanc e in questi occhi dolci scintil­lava qualcosa di simile all'invito a stringere amicizia. Non solo perché il cane aveva un'aria buffissima, l'espressione che a volte assumono certi vecchi vagabondi sempre di buon umore e che non perdono mai, li trattino bene o male, neppure se li fanno ruzzolare giù per le scale o se si ricevono una secchiata d'acqua sulla testa, e per di più dicono grazie con un sorrisetto sul volto.
Per un breve istante, e più casualmente che inten­zionalmente, il francese smise di controllare gli scon­trini di cassa e lanciò al cane una seconda occhiata. Il cane, lesto ad accorgersi di questa rinnovata attenzione, la ricambiò con un allegro scodinzolio, piegò un tan­tino la testa di lato e apri la bocca storcendola da una parte, sicché monsieur LeBlanc ebbe l'impressione che gli sorridesse familiarmente.
LeBlanc non si seppe trattenere dal ricambiare il sorriso e per qualche secondo gli parve che in quest'ora, ch'era la più indaffarata e la più ingrata dell'abituale attività quotidiana, gli si fosse insinuato nel cuore, silenzioso e furtivo, un frammento dorato di sole, per sfiorarglielo con una carezza e infondergli un nuovo, insolito  calore.

Il cane, scodinzolando più forte, si rizzò agilmente sul­le zampe, ma si rimise subito giù e, restando cosi acco­vacciato, si spinse alcuni pollici più vicino alla porta, sen­za entrare però nel caffè.
Il francese, che giudicava ammirevole un compor­tamento cosi dignitoso da parte di un randagio affa­mato, non potè resistere a quanto gli suggeriva il sen­timento.
Dal piatto semivuoto che una cameriera aveva tolto dalla tavola d'un cliente, proprio in quel preciso mo­mento, per portarlo in cucina, afferrò al volo una co­stata di manzo di cui il cliente, a quanto pareva di scarso appetito, aveva mangiucchiato appena qualche pezzetto.
Tenendo fra due dita il bel pezzo di polpa succo­sa, riportò lo sguardo sul cane, lo dondolò un paio di volte, in segno d'invito, e con un cenno del capo gli fece capire che poteva entrare per prendersi il sapo­rito boccone. Il cane vide e comprese l'invito, agitò non più soltanto la coda ma tutta la parte posteriore del corpo, apri e richiuse la bocca in rapida succes­sione e si leccò le labbra, come se avesse già avuto la carne sotto i denti.
Tuttavia, benché sapesse fin troppo bene che la bi­stecca era destinata a luì, non trotterellò nel caffè; rima­se seduto fuori, vicino alla porta.
Il francese, di colpo più interessato al cane che ai clienti, usci da dietro il banco, portò la bistecca fin sulla soglia, ci giocherellò piuttosto a lungo, davanti al naso del cane, e alla fine la lasciò cadere nella bocca affamata.
Il cane l'afferrò senza fretta, rivolse all'uomo uno sguardo riconoscente, si allontanò dalla porta e si accucciò sul marciapiede asfaltato, proprio sotto la finestra del caffè. E li si mangiò la grossa bistecca con la calma beata che soltanto a chi è consapevole della propria coscienza pulita è dato di godere appieno.

Terminato ch'ebbe di banchettare, si levò, ritornò accanto alla porta e attese, paziente, che il francese si accorgesse di nuovo della sua presenza. Non appena LeBlanc gli lanciò l'occhiata attesa con tanta bramosia, il cane si rizzò, scodinzolò tutto allegro, abbozzò lo stesso sorriso claunesco che già era piaciuto tanto al francese, scrollò la testa facendo ciondolare le orec­chie, si girò e se ne andò per le sue.
Naturalmente monsieur LeBlanc, vedendo che il cane si avvicinava alla porta, aveva creduto vi ritornasse spinto dalla speranza di ricevere un altro buon boc­cone. Ma quando si affacciò di nuovo sulla soglia, questa volta con una coscia di pollo ancora ben rive­stita di carne, il cane era già scomparso. Allora com­prese ch'era ritornato per tutt'altro motivo, quasi per dirgli, a modo suo, grazie.
Col passar delle ore il francese dimenticò l'accadu­to, perché per lui il cane non era che uno dei venti e passa randagi che si aggirano intorno ai ristoranti e non di rado, o meglio quasi sempre, vi entrano e si cac­ciano sotto i tavoli alla ricerca di resti e di panini caduti per terra e di ossi rosicchiati, e a volte si piantano acco­vacciati di fronte ai clienti e mendicano un boccone, fin­ché le cameriere non li cacciano fuori.
Il giorno seguente, però, esattamente alla stessa ora, il cane era di nuovo li, davanti alla porta dello stesso caffè.
Il francese lo vide e gli sorrise, come se fossero stati vecchi conoscenti. Il cane rispose al sorriso con la smorfia allegra, d'una comicità primordiale, si potrebbe dire, che gli si disegnava sul muso. Si rizzò a metà, come aveva già fatto il giorno prima, scodinzolò in segno di saluto e allargò quel suo sogghigno da vaga­bondo sin dove glielo consentiva la bocca, mentre la lingua rosea gli penzolava di lato sulla mandibola.
Monsieur LeBlanc gli inviò un cenno del capo per fargli intendere che poteva entrare per ricevere la sua colazione gratuita vicino al banco. Ma il cane avanzò soltanto  di mezzo passo  e, come il giorno precedente, non volle saperne d'entrare. A questo punto l'uomo parve intuire, finalmente, ciò che il cane intendeva comunicargli: non era la paura che lo tratteneva dai varcare la soglia, erano la sua intelligenza e la sua dignità innate a fargli capire che un locale frequentato da esseri umani puliti non è il luogo dove conviene s'intrattengano i cani randagi che frugano nei secchi delle immondizie per procurarsi il cibo e ai quali nes­suno fa mai il bagno.

Il francese alzò una mano, batté l'indice contro il pollice, guardando fisso il cane, e gli comunicò in questo modo, nella forma abituale nel paese, che avrebbe do­vuto attendere un po'. Con suo grande stupore, il cane comprese veramente il linguaggio mimico, perché si scostò d'un passo dalla porta e si adagiò sul marciapiede, con la testa fra le zampe anteriori e osservando con gli occhi semichiusi il padrone del caffè, che in questo momento aveva un gran da fare.
Circa cinque minuti dopo una cameriera stava por­tando in cucina un vassoio carico di piatti che aveva appena tolto dai tavoli. Il proprietario la chiamò con un cenno perché si accostasse al banco, prese il resto abbondante di quella ch'era stata una bisteccona, uscì, lo agitò scherzosamente sotto il naso del cane e infine lo lasciò cadere. Il cane l'afferrò al volo dalla mano dell'uomo, con la delicatezza con cui l'avrebbe presa dalla mano d'un bimbo. E si comportò esattamente come si era comportato il giorno prima. Si sdraiò tranquillo e pacifico sul marciapiede, sotto la finestra del caffè, e si godette in pace il buon pasto.
In questo istante LeBlanc si ricordò il modo in cui il cane gli aveva espresso, il giorno prima, il suo grazie e attese, incuriosito, per vedere se quella strana ma­nifestazione di riconoscenza era stata dettata da un impulso occasionale o se si trattava di una forma di .comportamento individuale seguita di proposito.
LeBlanc, il quale si stava proponendo di scommet­tere dieci pesos con un cliente che il cane, finito di mangiare,   sarebbe venuto   fin   sulla porta  per   testimo niargli la propria gratitudine, si accorse ch'era ormai trop­po tardi per la scommessa, poiché già vedeva l'ombra del cane accanto alla porta. Osservò l'animale e il suo atteggiamento con la coda dell'occhio, senza guardarlo direttamente. Se ne stava li, come incollato, in attesa che l'uomo si accorgesse di lui. Ma LeBlanc si dette da fare apposta, riordinando gli scaffali sui quali erano allineati bicchieri, bottiglie, barattoli di conserve, siga­rette e sigari e controllando ogni tanto i buoni di cassa, ma sempre tenendo d'occhio, di soppiatto, il cane, in maniera che non se ne accorgesse. Gli interessava vedere quanto tempo se ne sarebbe rimasto là, senz'altro scopo se non quello di ringraziarlo.

Passarono cosi quattro, forse cinque minuti. Poi il francese si decise a notare apertamente la presenza del cane. Non appena diresse lo sguardo verso di lui, il cane si rizzò, scodinzolò tutto allegro, piegò la testa di lato, gli inviò la sua rapida, buffa smorfia, si girò e scomparve.
Da quel giorno in avanti il francese tenne sempre da parte, per lui, il pezzo di carne più grosso e suc­coso avanzato dai clienti. E il cane ritornò tutti i giorni, presentandosi alla porta con la puntualità con cui in Messico hanno inizio le corride. Erano immancabilmen­te le tre e mezzo quando monsieur LeBlanc, lanciando un'occhiata alla porta, lo vedeva accosciato all'esterno, scodinzolante e con uno sguardo cordiale negli occhi se­michiusi.
Trascorsero cosi parecchie settimane senz'alcun muta­mento nelle regolari visite del cane, che accettava sempre nello stesso modo il bell'osso con tanta carne intorno e non mancava di ringraziare a modo suo prima d'al­lontanarsi dall'ospitale caffè. Il francese lo considerava ormai il proprio cliente più fedele e, sotto diversi aspet­ti, un visitatore portafortuna. Il cane arrivava con tale puntualità, tutti i giorni, che il francese avrebbe potuto regolare il proprio orologio sulla sua comparsa.
Benché questo randagio nero dal pelo arruffato e sudicio   si  dovesse   essere   ormai   convinto  della   piena amicizia del proprietario del caffè, il suo contegno di­gnitoso non mutò affatto. Mai si permise di varcare la soglia del locale, sebbene il francese gli avesse fatto intendere ripetutamente che poteva entrare e godersi tranquillamente il suo pasto ai piedi del benefattore. A dire il vero, sarebbe stato lieto se il cane fosse rimasto sempre con lui. Si sarebbe mostrato utile, per esempio cacciando fuori altri randagi meno perbene che s'intrufo­lavano nel ristorante, e la notte avrebbe potuto fare la guardia contro eventuali ladri. Per dirla sinceramente, monsieur LeBlanc aveva finito con l'affezionarglisi.
Negli ultimi tempi aveva preso l'abitudine di accarez­zarlo un po', quando gli porgeva il solito boccone, di dargli qualche colpetto affettuoso sulla schiena e di tirar­gli garbatamente le orecchie. E intanto il cane, mentre lui lo coccolava, se ne stava paziente, col suo pezzo di carne in bocca, fintanto che monsieur LeBlanc smetteva di accarezzarlo e se ne tornava dietro il banco. E soltanto allora — mai prima — si allontanava dalla porta e, fedele alla sua abitudine, si sdraiava sul marciapiede e si godeva tranquillo il pasto. E, come sempre, non appena finito si alzava, andava davanti alla porta e attendeva che il proprietario si accorgesse di lui e lo guardasse per sco­dinzolare tutto allegro e aprire la bocca, nel solito sog­ghigno furbesco, come per dirgli: « Mille grazie, amigo mio, e arrivederci domani alla solita ora». Poi, come sempre, si girava e s'allontanava trotterellando. Dove an­dasse, il francese non lo sapeva.
Ora avvenne un giorno che monsieur LeBlanc ebbe una lite tremenda con un cliente al quale avevano servito un panino più duro d'un sasso. Il cliente, sicuro che il panino fosse fresco e morbido, come aveva il pieno diritto d'attendersi, lo aveva addentato con forza e si era spezzato un dente. E, com'era più che naturale, aveva provocato uno scandalo terribile e minacciato il proprie­tario del caffè di denunziarlo, chiedendo un indennizzo di diecimila pesos, per lesioni colpose.

Monsieur LeBlanc si era scatenato con la furia di un gorilla, aveva licenziato in tronco la cameriera che aveva servito il cliente caricandola di male parole e la povera ragazza si era rincantucciata in un angolo buio, in fondo al locale, e aveva incominciato a singhiozzare disperata. La cosa, date le circostanze, appariva più che naturale. Certo la colpa non era soltanto sua. Avrebbe dovuto accorgersi, d'accordo, che il panino pareva un pezzo di legno. Ma come lei se ne sarebbe dovuto accorgere anche il cliente nel momento in cui lo aveva preso in mano. E non si deve dimenticare che i clienti non ricaverebbero certo una buona impressione se la cameriera, prima di servirli, schiacciasse fra le mani un panino dopo Paltro per assicurarsi che siano freschi. Perché allora protestereb­bero in nome dell'igiene. E non avrebbero torto. Ma comunque stessero le cose, era stata lei a mettere in tavola il malaugurato panino ed era quindi lei a portarne la responsabilità.
A ben guardare il vero colpevole era stato il for­naio, che aveva gettato il panino vecchio fra quelli freschi, volontariamente o per pura disattenzione. E mon-sieur LeBlanc, infatti, non appena si fu calmato e ritornò alla ragione, s'attaccò al telefono e avverti, urlando, il fornaio, che stava per andare a fargli una visitina con in pugno il revolver e che avrebbe ammazzato come si ammazza un ratto portatore di peste un simile stramale­detto impastatore negligente e abbandonato da Dio, che tanto non era certo meglio di un lurido topo di fogna e un puzzolente topaccio di fogna maledetto da Dio lo sarebbe rimasto sino alla fine dei suoi giorni. Al che il fornaio replicò con una dozzina di garbate verità che in parte si riferivano all'equivoca posizione so­ciale della madre di monsieur, che il panettiere non co­nosceva neppure di vista, e in parte — per la mag­giore — appartenevano a quel genere succosissimo di vo­caboli che se uno se li lasciasse scappare di bocca all'in­terno di una chiesa episcopale ne farebbe arrossire le pareti appena tirate a calce, ma di un rossore cosi acceso e persistente che per farlo scomparire bisognerebbe in­tervenisse il vescovo, per impartire al sacro luogo una seconda benedizione  e  cancellare  così  ogni  traccia  del­l'empietà che l'aveva  sconsacrato.

Il vivace scambio di reciproche opinioni si concluse quando monsieur LeBlanc scaraventò con tanta violenza la cornetta sul suo supporto che del telefono sarebbero rimaste sì e no le briciole se i tecnici che costruiscono questo tipo di apparecchi non avessero previsto le occa­sionali esplosioni delle passioni umane e provveduto a dotarli della necessaria robustezza.
Il francese, rosso in faccia come un pomodoro e con due vene azzurrognole in rilievo sulla fronte scottante, riprese il suo posto dietro il banco e quando l'occhio gii cadde verso la porta, vide seduto lì il suo buon vecchio amico, il cane nero in attesa del solito pasto.
In quel momento, nel vederlo cosi placido, cosi in­nocente, cosi immune dalle afflizioni, dalle angustie e dalle contrarietà d'un proprietario di caffè che in Mes­sico fanno invecchiare un uomo di vent'anni in pochi minuti, nel vederlo agitare tutto allegro la coda e salu­tarlo con quella sua smorfia buffonesca da vagabondo che gli si addiceva cosi bene che lui stesso, il cane, sapeva gradita al padrone del ristorante, ebbene, nel vederselo davanti agli occhi imperturbabile come se niente fosse stato, il francese, accecato dall'ira, s'infuriò suo malgrado: stravolto dalla collera, afferrò quasi senza accorgersene il panino incriminato ch'era rimasto sul banco e lo scara­ventò — e in seguito non riuscì a spiegarsi perché l'aves­se fatto — in testa al cane con tutta la forza del braccio.
Non vi è dubbio che il cane avesse colto il movimen­to, perché da quando era comparso davanti alla porta non aveva distolto nemmeno un attimo gli occhi dal fran­cese. Lo vide afferrare il panino, vide, più attento che mai, che il bersaglio era proprio lui. E lui, un cane che campava degli avanzi trovati per strada e per questo mo­tivo era avvezzo a una vita dura, condita di randellate e di sassate, aveva imparato, attraverso una lunga e dolo­rosa esperienza, a scansare i colpi e i lanci.


Sarebbe stato sufficiente un leggero movimento del­la testa per scansare il panino. Ma non si mosse. E non distolse lo sguardo dei caldi occhi marroni dal francese. Si prese in pieno il panino, senza manifestare il minimo segno di paura.
Rimase seduto là dov'era, come paralizzato per qual­che secondo; ma paralizzato non tanto dal colpo quanto, e assai più, dallo sbalordimento di ciò che era appena accaduto e che lui, sino a quell'istante, non avrebbe mai creduto potesse  accadere.
Il panino gli era finito fra le zampe anteriori. Gli dedicò un'occhiata breve ma penetrante, quasi si fosse atteso di vederlo muoversi, come un oggetto animato che da un momento all'altro sarebbe saltato su, per dargli la prova che aveva sbagliato, che aveva soltanto creduto di vedere quanto aveva appena visto.
Alzò gli occhi dal panino e fece scorrere lo sguardo per terra finché giunse alla porta del caffè e alla fine lo piantò sul francese e ve lo tenne, come incollato. Pareva che Jo attirasse una irresistibile forza magnetica. Non c'era ombra di accusa, in quegli occhi. Soltanto una profon­dissima malinconia. La malinconia di chi ha riposto una fiducia illimitata nell'amicizia di un altro essere e tutt'a un tratto, quando meno se lo sarebbe aspettato, la vede smentita da un'azione che non riesce in alcun modo a spiegarsi.
Il francese, che solo in quel momento parve rendersi conto del proprio gesto, sembrava pietrificato, colpito si­no in fondo dalla sensazione d'avere ucciso per disgrazia, senza volerlo, un essere umano. Con un improvviso scos­sone, come se gli avessero sparato, si rizzò in tutta la sua statura e ritornò in sé.
Per alcuni secondi fissò il cane con uno sguardo smar­rito, quasi avesse visto uno spettro.
E nello stesso istante il cane si alzò, lentamente scrol­lò la testa, le orecchie pendenti gli batterono contro le guance, come faceva di solito mentre stava per andar­sene, poi si girò e si allontanò.
Il francese, vedendo che se ne andava, si comportò come una persona fuori di sé, allungando le mani nel vuoto,  quasi  avesse  cercato  qualcosa in  sogno. 

Mentre girava intorno lo sguardo, gli occhi gli caddero su un uomo seduto accanto a lui, al banco, che stava per infi­lare la forchetta nella succulenta bistecca che gli ave­vano messo davanti proprio in quel momento.
Con piglio risoluto, l'afferrò dal piatto delio sbalor­dito cliente, che saltò su lanciando un urlo da selvaggio e si mise a protestare a gran voce e con grande energia per l'offesa arrecata ai diritti costituzionali di un citta­dino impedendogli di consumare in pace il suo pasto e chiamando a testimoni di un simile reato tutti i presenti.
Il francese usci sparato dal locale, con la bistecca don­dolante in mano, esplorò la strada con una rapida occhia­ta e vide che il cane era già arrivato all'isolato suc­cessivo.
Lo rincorse come un forsennato, fischiando, chiaman­dolo e senza curarsi minimamente dei passanti i quali si fermavano divertiti alla vista di un pazzo scappato dal manicomio che inseguiva fischiando un cane randagio tenendo in mano una bistecca rubata. Valeva la pena di godersi lo spettacolo, perché non era cosa di tutti i giorni.
Quando LeBlanc arrivò tutto ansante all'altezza del terzo isolato, il cane era bell'e scomparso e non poteva neppure supporre da quale parte, poiché la strada in quel momento era molto affollata. Lasciò cadere la bistecca e ritornò nel ristorante.
— La prego di scusarmi, amigo, — disse al cliente che nel frattempo si era rimesso a sedere tranquillo e al quale la cameriera si era affrettata a servire una se­conda bistecca. — Mi perdoni, senor, ma la bistecca non era granché buona se debbo dire la verità, e volevo regalarla a qualcuno che secondo me ne aveva un bisogno immediato, assai più di lei. Voglia dimenticare l'accaduto e ordini quel che vuole dalla lista, come omaggio della casa. Gracias.
Il cliente rise, messo di buon umore, e si dichiarò pienamente soddisfatto. Non cosi, però, monsieur LeBlanc.

Prese ad aggirarsi inquieto per il locale, qua accostan­do una sedia al tavolo, là scostandone un'altra ed esami­nandola come se fosse stato il caso di farla riparare, poi avvicinandosi a un altro tavolo per tirare un po' più giù la tovaglia da un lato, e a un secondo per lisciarla meglio col palmo. A furia di girare capitò nell'angolo dove la cameriera si era nascosta e dove se ne stava ancora rannicchiata, piangendo  silenziosamente.
Ya està bueno, Berta, naturalmente lei resta qui. Non era tutta colpa sua. Ma il fornaio può essere sicuro che un giorno o l'altro lo ammazzo, da quella bestiaccia -che è. Bueno, in ogni caso mi rivolgerò a un altro per rifornirmi di quanto ci occorre qui. Svelta, adesso, torni ai suoi tavoli. Maledizione, sono andato fuori di me peggio d'un diavolo torturato quando quel figlio di put­tana si è messo a strepitare come uno scimpanzé ubriaco per via di quel suo dente finto rotto.
Gracias, senor, — disse Berta, tirando su col naso le ultime lacrime già secche. — Le sono davvero ricono­scente che non mi caccia via. Le prometto che servirò i clienti meglio e più alla svelta di prima. Sa, senor LeBlanc, ho sul gobbo una madre e due bastardi che devo mante­nere. E non mi sarebbe facile, lo sa il diavolo, trovarmi un posto dove ricevere tutte le mance che mi danno qui.
Dio del cielo onnipotente non dica tante scioc­chezze. GliePho detto, no, che va bene cosi, tutto dimen­ticato e perdonato. Cos'altro vuole da me?
— Io non voglio altro. Sono felice di poter restare qua. Volevo solo ringraziarla, senor... — e, rivolgendosi a un cliente di scarsa pazienza, che stava battendo da un pezzo il coltello contro il bicchiere per richiamare la sua attenzione: — Oh, dannazione, va bene, si per l'amor di Dio, ho sentito quello che vuole, si. Non sono mica sorda. Non si agiti tanto, accidenti. La solita mignon coi fun­ghi? Bueno, bueno. Fra un minuto ce l'avrà. Intanto stia calmo, finché mammina arriva col biberon. Corro come se avessi il fuoco nel sedere.
Il francese si consolò dicendosi che il cane sarebbe ricomparso certamente l'indomani. C'era da giurare che non avrebbe rinunziato alla solita colazione per via d'un cosi trascurabile malinteso. Non c'è cane che non si buschi ogni tanto una strigliata dal padrone, quando se la merita, eppure gli rimane fedele. I cani si affezionano a chi li nutre.


Ma, stranamente, più seguitava a ripetersi che il cane sarebbe ricomparso e più si sentiva inquieto. Non riusci a toglierselo di mente per tutto il resto della giornata. Tentò di scordarsene innumerevoli volte, dicendosi che in fin dei conti non sapeva neppure come si chiamasse, quel cane, o dove passasse le notti, o chi fosse il suo padrone, ammesso che ne avesse uno. E siccome non c'era verso di riuscire a non pensarvi, s'irritò, borbot­tando che in fondo non si trattava che d'un botolo ran­dagio: «Non è altro che un comunissimo cane lercio > un vagabondo che campa di ciò che trova nelle pattu­miere, e per di più senza carattere. Dagli un osso e te ne farai un amico che ti adorerà per tutta l'eternità ».
Nonostante i suoi sforzi di dimenticare il cane e quanto più tentava di convincersi che non era il caso di affliggersi per quell'animale sporco e arruffato, tanto più gli era impossibile cancellarne il ricordo.
Il giorno seguente monsieur LeBlanc aveva messo da parte fin dalle tre una bisteccona saporita e fatta cuocere apposta al sangue, in modo da averla sotto mano non ap­pena il cane si fosse affacciato alla porta, per dargli il benvenuto con quest'offerta e chiedergli al tempo stesso scusa per il malaugurato incidente e riannodare cosi la vecchia amicizia.
Vennero le tre e mezzo e, come se i rintocchi dell'oro­logio sul vicino palazzo ne fossero stati la causa, il cane era li, accucciato al solito posto fuori della porta.
— Lo sapevo io che sarebbe venuto — si disse il fran­cese ad alta voce — lo sapevo, — e sorrise di soddisfa­zione. — Non sarebbe più un cane, se non venisse pun­tuale per il suo pasto gratis.
Sebbene lo dicesse forte, si senti tuttavia un tantino deluso che il « suo » cane si comportasse esattamente come qualsiasi altro randagio. Perché aveva finito con Paffezionarglisi e credeva perciò che fosse diverso dagli altri cani, e si era atteso che dimostrasse più amor pro­prio, più dignità. Però, comunque   fosse, fu contento di rivederlo. Gli perdonò l'evidente mancanza di orgoglio e cercò di convincersi che l'uomo deve considerare e accettare i cani cosi come sono, perché non ha il potere né di modificarne l'aspetto esteriore né d'infondere in loro un'anima o un carattere diverso da quello che pos­siedono.


Il cane, dunque, era li e guardava il proprietario del caffè con i suoi dolci occhi bruni.
In segno di saluto il francese gli rivolse un gran sor­riso cordiale, attendendosi che il cane gli rispondesse con la sua buffa smorfia da vagabondo.
Ma il cane tenne la bocca ben serrata e non accennò a movimenti di sorta, né con la testa né con la coda, quando vide che il francese prendeva su la bistecca già pronta. LeBlanc gli fece segno d'entrare, lo invitò a furia di cenni a sentirsi a casa sua nel locale, e a mangiarsi all'interno, in santa pace, il bel pezzo di carne.
Il cane rimase seduto dov'era, guardando fisso in volto il francese come se avesse avuto l'intenzione d'ipnotiz­zarlo.
LeBlanc agitò ancora una volta la bistecca, schioccando le labbra e lanciando una serie di « am, am » per stuzzi­cargli l'appetito.
Notando i suoi gesti, il cane incominciò a scodinzolare debolmente, ma smise di colpo non appena parve rendersi conto di quanto faceva.
Alla fine, visto che il cane non intendeva entrare e mostrava un evidente scarso desiderio di riprendere l'ami­cizia, il francese uscì lui, con la bistecca e, come aveva fatto spesso in circostanze differenti, gliePagitò sotto il naso per invogliarlo, certo che un bel momento l'avrebbe afferrata.
Il cane alzò gli occhi finché incontrò lo sguardo del francese, quando fu a un passo da lui. Ma per il resto non accennò ad altri segni di cordialità. Dato che si rifiu­tava decisamente di afferrare la bistecca, l'uomo, senza dare il minimo segno d'impazienza, gliela mise fra le zampe anteriori. Ma quello seguitò a starsene immoto come una statua. Lo accarezzò piuttosto a lungo e il cane ricambiò questa manifestazione di amicizia agitando la coda, ma appena appena, quasi impercettibilmente, senza staccar­gli neanche per un momento gli occhi di dosso.


Tutt'a un tratto chinò la testa, annusò il pezzo di carne, ma con palese disinteresse, guardò ancora una volta il francese fisso negli occhi, si alzò e si allontanò dalla porta.
LeBlanc schizzò fuori, sul marciapiede, e lo vide che se ne andava trotterellando lungo il muro, senza voltarsi indietro. In capo a un paio di secondi scomparve in mezzo alla folla frettolosa. Il giorno dopo, puntuale come sem­pre, era di nuovo seduto davanti alla porta del caffè, con gli occhi fissi sul volto dell'amico perduto.
E di nuovo, mentre monsieur LeBlanc gli si accostava con un bell'osso coperto di polpa fra le dita, il cane si limitò a fissarlo, come il giorno prima, senza badare affat­to all'allettante boccone che aveva fra le zampe.
Staccò gli occhi di dosso al francese solo per un attimo e agitò brevemente, e con ritegno, la coda quando l'uomo si chinò per accarezzarlo e tirargli scherzosamente le orecchie.
Trascorse cosi un minuto. Il proprietario del caffè si chiedeva che cos'avrebbe dovuto fare per riconciliarselo.
In quel momento il cane si rizzò, leccò ripetutamente, dieci volte e più, la mano che lo accarezzava, guardò di nuovo l'uomo negli occhi, si lasciò sfuggire un verso sof­focato a malapena udibile, che si mutò in un leggero, triste guaito e si concluse con un lungo, commovente uggiolio; poi si girò, senza nemmeno annusare Posso, e se ne andò con la sua solita andatura trotterellante.
Fu l'ultima volta che monsieur LeBlanc lo vide. Il cane non ritornò più davanti al caffè e non comparve mai più nelle vicinanze.

B. Traven