Un’ultima estate disperata nella Roma di Gianfranco Calligarich

di Manuela Lo Prejato • ott 27th, 2009 • Letteratura

Presentato da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, vincitore del Premio Inedito nel 1973, L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich è un romanzo immeritatamente sommerso.

Narra la storia di Leo Gazzarra, giornalista che si ritrova dattilografo, di Arianna, la donna bella, isterica e fragile che lui ama, e di tutta una serie di amici nobili o intellettuali – decaduti, alcolizzati, disperati – che gli girano intorno.
“Ho avuto le mie carte e le ho giocate. Nessuno mi costringeva. Rimpianti non ne ho”: così il protagonista riassumerà lo scacco di un’esistenza, all’epilogo di una lotta fatta di rinunce e resistenze più che di battaglie.
Leo vive solitudini che lo portano a comporre numeri di persone partite, per immaginare gli squilli del telefono nelle case vuote; prova un freddo ricorrente che lo induce anche a piangere; si muove indolente tra il lungomare di Ostia, piazza Navona e la casa a Monte Mario, con la preoccupazione di dover impegnare le ore morte tra le dieci di sera e l’una di notte.
Roma è lo sfondo della narrazione. Una Roma che accoglie gli immigrati, ma che in fondo è spietata. E i trent’anni sono quelli indagati, la fase della vita in cui la vita stessa comincia a chiedere i conti, e in cui, se si è privi di risultati e progetti concreti, può emergere l’istinto di uccidere i padri, i quali, a loro volta si erano massacrati “sui fronti di patrie che non esistevano più”. Il padre di Leo è un uomo corpulento, immerso in un silenzio antieroico ma dignitoso. Il loro non-rapporto segna il protagonista, allo stesso modo in cui la relazione con Arianna gli lascerà una lacerazione intima: “Ma è sempre così, siamo quello che siamo non per le persone che abbiamo incontrato ma per quelle che abbiamo lasciato”.
Il finale, che rivela l’ironia disillusa di Leo, è carico di un patetismo spoglio, non retorico e del lirismo senza speranza del protagonista.