Frontiere, G.C.

( per il catalogo del Festival delle Frontiere Bari 2011)  

      Non a tre anni al porto di Taranto dove ero sbarcato da una grande nave bianca che aveva circumnavigato l'Africa per sbattere me, mia madre e i miei fratelli nel grande caos italiano dell'otto settembre 43, il primo concetto di frontiera. Passo ancora troppo vacillante,occhi troppo stupefatti e mondo troppo vasto e indecifrabile per avere concetti. Circa quattro anni dopo, il primo  concetto di frontiera. Al ritorno dalla guerra del mio vecchio, alto e robusto come una quercia nonostante i cinque anni di prigionia nel deserto egiziano, coi possenti muscoli tesi sotto la divisa sdrucita come pronti a qualsiasi altra avventura e una copia logorata e con tracce di sabbia tra le pagine de Il Vagabondo delle Stelle di Jack London chiusa nello zaino. Con alle spalle una famiglia triestina, una nascita in Grecia, una giovinezza a Milano e poi i deserti e gli altopiani d'Africa e  grande narratore orale -  un vero Omero in grigioverde con il dono di una voce capace di far vedere cosa diceva - era stato la sera stessa del suo arrivo seduto sulle sue ginocchia mentre raccontava ai vicini di casa la sua vita e la sua guerra che avevo cominciato oscuramente a intuire che le frontiere potessero essere non solo luoghi geografici con sbarre e guardiani ma anche eventi della vita a cui dare la caccia per poi poterli raccontare.
    Come nel London chiuso nel suo zaino dove un prigioniero sopravviveva a una camicia di forza ogni volta perdendosi nel tempo e rivivendo le sue vite precedenti, stando a quello che più avanti avrei letto nel libro con la sabbia tra le pagine.
    Quindi a sei o sette anni e sulle sue ginocchia il primo nebuloso concetto di  frontiere ereditando da lui - come un giovane cane gli istinti del padre - un genetico impulso di razza a oltrepassarle e raccontarle e trovandone dovunque dato che, come avrei scoperto presto, per i cacciatori di frontiere la vita è sempre altrove. Da lì la tragedia della scuola fin da bambino a causa dell'invincibile propensione del mio sguardo a distogliersi dalla lavagna e puntarsi verso le finestre dell'aula come per sentire anche con gli occhi le storie che il vento portava nelle strade di Milano dopo essere passato tra le case diroccate dai bombardamenti. Per poi, dopo le promozioni d'ufficio delle elementari, trovarmi davanti alle ripetute bocciature delle medie e delle superiori in scuole continuamente cambiate in cerca di quella adatta a me tra cui perfino un istituto tecnico per periti chimici finchè, a diciassette anni incastrato e umiliato nei banchi di un istituto magistrale tra compagni di classe di tre anni più giovani di me, avevo effettuato il mio primo passaggio di frontiera. Nel sole invernale di una mattinata milanese che illuminava la scalinata dell' istituto magistrale mentre, tagliata la corda in un intervallo delle lezioni, scendevo i gradini stringendo tra i denti il giuramento di non mettere mai più piede in una scuola e andare invece a caccia della sola cosa che mi interessasse. Raccontare storie, e non solo a voce come il mio vecchio, non avevo la sua capace di fare vedere cosa diceva,  ma scriverle su carta come le divinità scoperte nei miei vagabondaggi extrascolastici sugli scaffali della biblioteca americana dell'USIS.  I Saroyan, gli Hemingway, i Thomas Wolfe, i Fitzgerald, i Miller, i Faulkner,  i Dos Passos. E pagare loro - battendo sui tasti di una macchina da scrivere rubata negli uffici di una delle scuole che mi avevano bocciato calandola da una finestra con una delle funi della palestra - il debito che avevo contratto con loro ereditando lo stesso gusto di attraversare frontiere e raccontarle.
    Solo la prima di una serie, la frontiera passata scendendo la scalinata battuta dal sole del mattino milanese. La seconda sarebbe avvenuta dopo la rottura  dei rapporti in famiglia - compresi quelli con il mio stesso vecchio a causa della mia diserzione dalla scuola - con  la decisione, nel tentativo di darmi un minimo di rispettabilità sociale, di iscrivermi a un corso di giornalismo dell'Università di Urbino. Decisione che però necessitava dei soldi per l'iscrizione e i libri e che alla fine avrei fatto coi Buoni Palmolive. Vale a dire certi tagliandi sconto per cosmetici e detersivi che - insieme ad altri vagabondi di strada come me e comunque i soli con cui avessi qualcosa da dire - andavo a infilare nella caselle postali dei palazzi superando l'ottusità  pubblicitaria  di nerboruti portieri milanesi.

      Finchè, raccolta la somma necessaria, avevo potuto affrontare il primo di numerosi viaggi nella ventosa Urbino. In autostop, per risparmiare sul biglietto del treno, e della durata di circa dodici o quattordici ore con lunghe soste anche con pioggia e vento ai bordi delle strade fino all'arrivo a destinazione per soggiorni la cui durata sarebbe stata determinata dai poker coi compagni di corso nel silenzio delle notti del bar della Casa dello Studente.  
    Così la vita alla frontiera di Urbino. Con soggiorni guadagnati notte dopo notte fino al colpo di tram di un amore per una ragazza di Pesaro. Bella, ribelle, da raggiungere ogni giorno con altri autostop per poi infrattarmi con lei negli angoli nascosti della costa davanti al mare della sua città fino alla pratica decisione, per evitare i quotidiani andirivieni in autostop, di smettere con le frequenze del corso e studiare da solo in una stanza sul porto. Dormendo su bernoccoluti materassi stesi a terra insieme a due imbianchini di cui uno pugile dilettante e sostenendo la mia fame di frontiere con le vitamine e le proteine delle insalate e delle mortadelle di una mensa per indigenti dell'ONARMO. La possibilità di integrare i pochi soldi che la ragazza di Pesaro mi passava lavorando da un ferramenta, a farmi decidere di cercare di fare qualche altro con le cinquemila lire che l'imbianchino pugile prendeva per ogni incontro. Da lì duri allenamenti - dilettanti o no erano pugni veri quelli dentro i guanti incartapecoriti e puzzolenti di sudore che passava la palestra - in una vecchia chiesa sconsacrata dove era stato montato un ring. Il tutto finchè insalata e mortadella avevano presto mostrato la loro insufficienza per sostenere un pugile e ero stato messo fuori combattimento non da un avversario - cosa che da subito ero stato pronto ad accettare -  ma da una pleurite che mi aveva rispedito a  Milano per essere ricoverato in ospedale.
    Per cui,  data a quel punto la  sconsigliabilità di viaggi in autostop, materassi sui pavimenti di stanze sui porti e mense per cacciatori di frontiere indigenti, interrotto il corso e data per definitivamente superata la frontiera di Urbino, era stato a Milano che, per  guadagnare soldi in altri modi che non fossero  i Buoni Palmolive,  avevo dato inizio ai tentativi di entrare in un giornale. Più di un anno di porte sbarrate, poi un apprendistato gratuito di notti al Guerin Sportivo, poi il ruolo di negro per il corrispondente milanese de Il Mercoledì  di Bari e, infine,  l'assunzione nella redazione di  un settimanale di programmi televisivi, Settimana Radio TV, che necessitava di un corrispondente a Roma dove nessun altro redattore voleva trasferirsi.
     Quella, dopo la scalinata nel sole della mattinata milanese e i viaggi a Urbino, era stata la frontiera delle frontiere. Quella che, come avevo  saputo subito, avrebbe aperto tutte le altre della mia vita capendolo fin dalla sera stessa dell' arrivo alla stazione. Scendendo da un treno con due valigie piene di libri e dattiloscritti di racconti in una notte di febbraio solcata da una feroce tramontana che, dopo aver ben bene spazzolata la città, il mattino dopo me l'aveva offerta con tutti i suoi decrepiti e secolari monumenti sfolgoranti sotto il cielo più azzurro che i miei occhi di ventenne avessero mai visto. Era, come avrei imparato presto, il complice e beffardo modo della città di mettersi a disposizione del tuo legittimo desiderio di felicità senza mai concedertela. Vale a dire offrendoti qualsiasi tipo di frontiera togliendoti qualsiasi voglia di cercarne altrove. Da lì, nei folgoranti mesi che erano seguiti, l'immediata, devastante voglia di buttare via qualsiasi racconto scritto precedentemente e mettermi a scrivere della sua beffarda complicità e inafferrabilità in un romanzo con una precisa conseguenza. Il rifiuto - quando dopo sei mesi il settimanale non aveva più potuto permettersi un corrispondente a Roma - di tornare a Milano e restare invece tra i suoi vicoli e raccontandoli.  A qualunque costo. Anche un paio d'anni di tentativi di passaggi di frontiere alternative - venditore di pubblicità nelle cabine dei telefoni a gettone, rappresentante di cavi elettrici per candeline natalizie e perfino piazzista di sostegni di plastica per reggere le scarpe nelle vetrine dei negozi di calzature - con  conseguenti mesi di autentica fame per me, la ragazza di Pesaro, la figlia di due anni che la città intorno e la nostra giovinezza ci avevano stupendamente regalato e un cane lupo randagio denutrito come noi che non avrebbe mai avuto altro guinzaglio che una corda. Tutti e quattro comunque con una totale certezza. Che prima o poi quello che la città ti prometteva sarebbe stato mantenuto e, insieme, perfettamente consci che la felicità era già quella.
    I primi soldi, pochi, erano arrivati con il passaggio di frontiera di un giornale comunista. Io non lo ero - io ero solo un maledetto scrittore e basta - ma gli altri del giornale, dall'invitante nome di Vie Nuove e troppo indipendenti per essere ben visti dal Partito, erano tipi fantastici e il mio non esserlo era stato per tutti un trascurabile dettaglio. Quattro anni da giornalista giovane e felice, su quelle poi naufragate vie nuove.  Fino all'arrivo, con l'incalzare della linea d'ombra dei trentanni - quella sì una vera, inevitabile frontiera -  della  certezza di non avere  più tempo da perdere se volevo diventare uno scrittore. La fuga dal giornale mi aveva visto far crepitare la macchina da scrivere in una stanza affittata - le strade allora erano piene di cartelli affittasi - nel quartiere dentro l'ansa del Tevere che attorniava la più stupenda delle piazze della città, piazza Navona. La macchina da scrivere crepitante nel mio fare da negro a un famoso sceneggiatore che mi convocava a casa sua per raccontarmi storie di film che poi io scrivevo e riuscendo così a far mangiare la ragazza di Pesaro, una gatta randagia nera chiamata Mona come l'eroina della Rosea Crocifissione di Henry Miller e la stupenda bambina di ormai  sei anni che guardandomi stupendamente mi faceva capire che, qualunque tipo di pazzo io fossi, per lei andava bene. Finchè, avendo qualcuno della Rai letto un mio racconto su quel grande giornale che era Il Mondo,  mi avevano chiamato a  scrivere i loro romanzi sceneggiati.
      Il lavoro di sceneggiatore aveva due lati  positivi rispetto al giornalismo comunista. Essere  pagato meglio per quello che scrivevi e la possibilità, tra una sceneggiatura e l'altra, di scrivere quello che volevi scrivere davvero. Cosa che avrei fatto fino alla fortunosa - come sempre per i primi romanzi - pubblicazione del libro  che avevo sempre voluto scrivere, L'Ultima Estate in Città, e dove la città in questione era quella che mi aveva beffardamente catturato. Sembrava fatta. Riuscito a passare la tremenda frontiera senza custodi - e forse proprio per questo terribilmente solitaria - che avevo scoperto fosse scrivere un romanzo, ero certo che ne avrei scritto subito un altro continuando così felicemente a pagare il debito con il mio vecchio e le mie altre personali divinità. Non sarebbe stato così. Come per una angustiante, lunga vendetta di un dio oscuro e ostile ci avrei messo molti anni a trovare il linguaggio giusto per scrivere il secondo. Una invalicabile frontiera a sprofondarmi in un personale abisso - e Privati Abissi sarebbe stato alla fine il titolo - dal quale sarei uscito a tratti con un libro di racconti, Posta Prioritaria e, per cercare di fare qualcosa di più vicino possibile al romanzo che non riusciva a nascere, scrivendo per il teatro fino al punto di fondarne uno rimettendoci tutti i soldi guadagnati con le sceneggiature pur di mettere in scena le mie storie. Con intorno la città  a osservarmi come sempre inafferrabile e beffarda. Lei, la mia frontiera delle frontiere prima dell'ultima. Quella  non raccontabile. O comunque  quella da cui nessuno per lo meno degno di fede è mai tornato indietro a  raccontarla.
     Tranne il Jack London de Il Vagabondo delle Stelle.

G.C.