Maldasmara, G.C.

"GQ" giugno 2011

All’inizio, nella tua avventurosa infanzia tra le macerie di una Milano immobile e attonita devastata dalla guerra appena finita e dove eri approdato strappato dall’Africa da una grande una nave bianca – e avresti saputo molti anni dopo che si chiamavano proprio così -  insistenti, baluginanti  immagini piene di sole. Resistenti a tutto.  Anche al buio degli occhi chiusi delle tue finte morti nelle battaglie con gli altri vagabondi delle macerie mimate a braccia e gambe aperte sul terreno delle case distrutte prima che la voce di tua madre arrivasse da una finestra a importi la resurrezione e la cena. Impossibile dire se davvero li ricordavi, nel buio delle palpebre chiuse, i volti di tuo padre e di tua madre chini sulla tua culla. Ma le altre, di immagini, quelle erano indubbiamente vere.

Tu che bambino affacciato dietro il cancello chiuso del  cortile di casa tua spiavi stupito e un po’ spaventato una danza di negri addobbati di lenzuoli bianchi che suonavano tamburi e ballavano portandosi alla bocca con le dita della polvere rossa chiamata berberè tolta da dei cartocci il tutto in una sorta di  accoglienza da parte del mondo selvaggia e festosa riservata solo a te. Poi tu,nello stesso cortile, seduto su una cassa di legno con il coperchio di una pentola tra le mani mimando un volante di automobile per, primo tentativo di seduzione, fare colpo sulla bimbetta figlia dell’abissina che aiutava tua madre nei lavori di casa. Poi la canna della bicicletta di uno zio che si prendeva cura di te, visto che tuo padre era scomparso per “andare alla guerra” e, quindi, sempre tu che giocavi con un registro di pelle nera sulla scrivania del suo ufficio allestito in una baracca di legno in mezzo a una radura piena di sassi, polvere e fichi d’india.
 In quella radura assolata e polverosa dove le tue esili gambe di ragazzino di tre anni o quattro anni ti avevano portato sfuggendo all’attenzione dello zio, il primo spavento della tua vita. Sei solo nel deserto. Un po’ smarrito ma comunque deciso a restarci. E ecco che si avvicina un negro che ti dice qualcosa. Tu non capisci e cominci a arretrare. La paura che  i suoi capelli corti e ricci, il suo volto nero e la chiostra bianchissima dei denti incutono al tuo cuore e alle tue ginocchia è immediata e totale. Più arretri e più lui si avvicina parlandoti la sua lingua sconosciuta. Suadente, pericolosa. E ecco che, messe le mani nere sotto il lenzuolo bianco, torna a mostrarle armate di un coltello che, almeno nel ricordo, scintilla nel sole. Ormai è a fare ombra su di te che, terrorizzato, non hai neanche la forza di piangere o di scappare. Poi lui alza il coltello sulla tua testa ma, invece di tagliartela di netto come tu sei sicuro che farà, se ne serve per staccare un fico d’india alle tue spalle poi, dopo averlo buttato sul terreno e averlo fatto rotolare  nella polvere sotto la pianta nuda del piede per togliergli le spine, lo sbuccia con il coltello e infine, magia gialla e oro nata dalle sue mani nere, ti porge il frutto più dolce e granuloso che mai mangerai in vita tua. Da meravigliarsi se ancora adesso, vedendo un fico d’india, ti sembra diverso da qualsiasi altro frutto anche se è sul banco di un supermercato?
Poi altre immagini, sotto le palpebre chiuse. Un natale africano - tuo padre sempre assente  e conoscerai più tardi il suono misterioso del nome  Ambalagi detto così, tutto attaccato  -  con i tuoi due fratelli più grandi di te di una dozzina d’anni che, dopo averti costruito con delle assi di legno una rozza automobile dipinta di rosso, ti spingono su per la salita di casa tua. Poi i soldati inglesi che, entrati in casa per portarvi in campo di concentramento, sequestrano  tutti i vostri suppellettili compreso il  bicchiere di latta dove bevi il tuo latte  e respingendo i tuoi attacchi per riprenderlo dal sacco di tela dove l’hanno messo. Poi il campo di concentramento dove, malato di intestino, ti nutri con il latte che i tuoi fratelli vanno a prendere strisciando sotto il reticolato per raggiungere lo zio che te lo ha portato servendosi della sua bicicletta. Poi i camion, il treno merci dove vi hanno caricato, la grande nave bianca e l’ Africa circumnavigata anche se non sai cosa vuol dire circumnavigare. Fino all’arrivo a Taranto. Dove delle signorine in divisa bianca ti avevano accolto offrendoti una cosa succosa e dolce da mangiare che si chiamava uva.
Quelle le immagini baluginanti sotto le palpebre abbassate. In qualche modo eroiche come le morti tra le macerie delle case distrutte. E il tutto in riferimento a  un nome ricorrente in casa, Asmara, dove,  ti dicevano, avevi avuto la ventura, tutto sommato apprezzabile, di nascere.
Non sapevo se mi piacesse essere nato in un posto con quel nome. Non lo dicevo perchè nessuno me lo chiedeva ma alla fine - stanco di sentirmi sfottere dai compagni di scuola perché se nato in Africa non ero nero o per lo meno un po’ abbronzato e altre amenità del genere con la conseguenza di farmi sentire una specie di oggetto estraneo tra loro nati tutti a Milano e per i quali il massimo dell’esotismo era Gallarate - avevo deciso di no. Poi, una volta evoluti i tumultuosi eroismi dell’infanzia in quelli più mirati e rigorosi dell’adolescenza, avevo finito per nutrire una insofferenza in un certo senso estetica riguardo perfino il nome stesso di Asmara. Quell’unica vocale “a” ripetuta tre volte come in una economica mancanza di fantasia  tra sillabe dove solo la erre mostrava alla fine un minimo di carattere. Un nome  decisamente antieroico, provinciale, buttato lì, per non dire addirittura asmatico se lo troncavi a metà e poi, a farmi sfiorare l’esasperazione, gli occhi  lucidi di mio padre e mia madre con la voce ridotta a una sorta di sospiro intollerabilmente quasi languido quando lo pronunciavano come dei convalescenti da una malattia che gli era piaciuto avere. Insopportabile. Da andarsene sbattendo la porta. Sì, Africa per Africa meglio sarebbe stato nascere allora, che ne so, a Addissabeba, nome reso selvaggio da quell’ammassarsi di vocali e sillabe e buono da tirare fuori con gli amici quando dovevi darti un tono, o Massaua, almeno c’era un porto, o Tripoli, così secca e dura da pronunciare, o Bengasi o, magari perché no, Mombasa, nome pieno di avventura solo a dirlo, per non parlare di Algeri, argentea e violenta e abitata -  suggestione sopraggiunta con la velleitaria decisione presa più tardi di fare lo scrittore - da Albert Camus, oppure Nairobi, nera anche solo nel nome e abitata da Karen Blixen. No, invece solo e semplicemente  Asmara. Tutto lì. Dove sei nato? A Asmara. Risposta a aggiungere a quel nome,come se non bastassero già quelle che aveva, l’esagerazione di una quarta “a”.  E dov’era poi Asmara? In Etiopia. No, anzi, in Eritrea. Bel nome anche quello. Nome che, al massimo poteva far pensare, diciamo la verità, appunto a una malattia magari della pelle. O dell’intestino, chi lo sa. Porca miseria ieri ho avuto un attacco di eritrea o robe del genere. Sì, una vera palla, da ragazzo, essere nato a Asmara. Beh, quando ti chiedevano dove eri nato l’unica era far finta di non sentire, altro che storie.
Le cose non erano particolarmente migliorate neanche diventando prima adulto e poi, coraggio diciamolo, invecchiando. Tutto sommato bastava avere pazienza quando, richiedendo qualche documento, oltre al cognome che dovevi ripetere tre o quattro volte  prima di fargli capire che il finale era “ch” e non “c” oppure “k”, dovevi aspettare che le labbra incurvate dell’impiegato, chino prima sui suoi registri e più tardi su un computer, stabilissero se Asmara era Eritrea o Etiopia per poi, alla fine,  lasciarti andare come se tu fossi un provocatore e lui uno meritevole di uno straordinario che nessuno gli avrebbe dato.
No, nessun miglioramento neanche con lo scorrere degli anni, riguardo l’esser nato a Asmara. Una faccenda da accettare come una sorta di iniziale incidente nel percorso dell’esistenza. Senza possibili rimedi. Uno nasce miope e uno a Asmara. Bastava vederla così, e buonanotte al secchio. Quanto,  eventualmente, a tornarci neanche a pensarci. A Asmara? E a farci cosa? Diversi viaggi di lavoro in Africa, sì, per sopralluoghi di film o per necessità di documentarmi per qualche storia. Ma fatti tutti con gente  a cui Asmara, appartata sul suo corno geografico e dove comunque era in corso una guerra da trent’anni, non faceva né caldo né freddo. Un po’ diverse le cose per me, bisogna dire. Si, difficile non ammetterlo ma ogni volta che sbarcavo in Africa era come se da qualche parte dentro di me nascesse qualcosa che non era definibile se non come una voce che chiamava da qualche parte verso oriente e che continuava finchè non ripartivo. Ma niente di non ignorabile, alla fine, visto che poi, tornato a casa, non si sentiva più e la faccenda era chiusa.
Chiusa un maledetto accidente. Era stato a quel punto che, finita la guerra tra Eritrea e Etiopia, il fratello più vecchio, vale a dire uno dei due dell’automobile di legno rossa, aveva cominciato a parlare di un possibile viaggio a Asmara dove anche lui non era mai più tornato da quando aveva sedici anni. Negli ultimi tempi, tra i suoi vari e numerosi incarichi sociali, se ne era assunto anche uno di dirigente della associazione dei reduci d’Africa che un paio di volte l’anno organizzava viaggi a Asmara  e mi proponeva di andarci. La sua eccitazione di tornare a vedere i posti lasciati nella sua avventurosa giovinezza, unita alla improvvisa tentazione da parte mia di dare retta alla voce che sentivo nei viaggi in Africa , è tale che dico sbrigativamente di si e pago la mia quota del viaggio per quella che finisce per rivelarsi una  fregatura dai molteplici e seccanti aspetti.
Fregatura, sì .Infatti  un paio di settimane prima della partenza lui ha un incidente che gli impedisce di partire. Cosa fare, rinunciare al viaggio e rimandare di un anno? E se poi il viaggio finiva per sfumare del tutto? Allora cosa fare, partire lo stesso, da solo, con gente sconosciuta, superando i miei preconcetti verso i viaggi organizzati? I viaggi per me sono come il  poker, meglio farli solo con gente che conosci. Ma alla fine decido di sì. E è a quel punto che la voce africana comincia farsi sentire. Come se qualcuno l’avesse avvertita di quello che sta succedendo. Vale a dire la mia decisione di darle retta.  E il risultato è che,a poco a poco, comincio a stare male.
Non è un modo di dire. Male sul serio. Come se qualcosa si fosse di colpo aperto da qualche parte molto nascosta dentro di me. Qualcosa di non definibile altrimenti che come una sorta di oscuro antro vuoto pieno di echi e di rimbombi. E comunque sono echi e rimbombi quelli che, oltre un fastidioso sudore alle mani, sento nelle orecchie sempre più prepotentemente mano a mano che il giorno della partenza si avvicina. Senza contare pulsazioni cardiache intorno ai cento e pressione a centottanta. Un effetto delle vaccinazioni, altra rottura di scatole affrontata per il viaggio? E’ con quella idea che vado da un amico medico.
Mi ausculta  l’auscultabile, preme dove  deve premere, guarda dove deve guardare, misura quello che deve misurare. Poi il responso. Vaccinazioni un accidente, dice. Prendi dei tranquillanti e parti. Sarà  Maldafrica, conclude poi sogghignando.
Detestabili, gli amici che fanno i medici. Di una irritante sbrigatività. Almeno con me. Ma quale Maldafrica, e tutte le altre volte che ci sono andato sentendomi benissimo?
Allora sarà Maldasmara, dice lui sempre sogghignando prima di invitarmi ad andarmene perché, dopo di me, ci sono dei pazienti veri.
Che il bastardo possa avere ragione posso verificarlo appena uscito dal suo studio. Più  penso a viaggio e più l’idea mi terrorizza. Si, poche storie, autentico terrore. Infatti più che un viaggio quello che mi si prospetta mi appare come un  oscuro ritorno a utero volontariamente snobbato per tutta la vita e rimasto per il tutto il tempo della stessa in paziente, ostinata attesa del momento buono per vendicarsi inghiottendomi e facendomi sparire  dalla terra così come a suo tempo mi ci aveva fatto apparire. Sì è esattamente quello che sento con agghiacciante chiarezza. Che partire significherebbe offrirsi in pasto alla vendetta di una Asmara pronta a farmi fuori, altro che storie.  Ah si? Finisco per concludere virile autorità. Così le cose? Beh allora che si fotta, Asmara. Con tutti gli asmarini e i loro occhi lucidi.
Quelli della AfricaNine sono persone perbene e mi rendono il più possibile dei soldi del biglietto. Ho il vago sospetto che, ascoltati i motivi della mia rinuncia,la cosa non gli dispiaccia affatto. Del resto chi lo vorrebbe, in un gruppo, uno scrittore ipocondriaco? Però, per la miseria,per girarmi mi girano e, il giorno della partenza, sono talmente furente con me stesso che in una riunione di sceneggiatura non emetto verbo finchè, su richiesta della dannata matrona autrice di numerose schifezze editoriali e televisive che l’hanno imbottita di soldi e sul cui libro stiamo lavorando, mi chiede cosa abbia e perché non sia partito come avevo annunciato. Mi sembra il momento buono per farle capire chi dei due è lo scrittore vero, quello sensibile se non addirittura tormentato, e così tiro fuori la faccenda dell’utero ma tutto quello che ottengo da lei sono un ghigno e una battuta sulla maggior presenza di attributi maschili da parte delle donne rispetto gli uomini.   
  Per farla breve. Frustrazione, sfottimenti e la voce africana in silenzio e probabilmente a intenta a sogghignare anche lei come la dannata matrona della sceneggiatura per circa un anno, dopo il  viaggio fallito. In altre parole catastrofico Maldasmara, come mi viene da chiamarlo non sapendo quale altro nome dargli oltre quello di, eventualmente, profonda umiliazione e implacabile rodimento. Finchè mio fratello, ristabilito, rinnova l’invito. Ovviamente nicchio ma lui comincia a spingere. Pressappoco come a suo tempo aveva spinto l’ automobile rossa, in qualche modo. E allora finisco per accettare.
Che dire, adesso,  di quel viaggio. Che il temuto oscuro utero pronto a inghiottirmi e a farmi sparire dalla faccia della terra non era per niente un antro oscuro ma anzi un altopiano dotato della luce più tersa che avessi mai visto in vita mia? Beh, sì, la luce di  quella dannata Asmara aveva già folgorato celebri scrittori viaggiatori, a quanto sarei venuto a sapere. Della somiglianza di quella luce con quella che scintillava negli occhi di mio padre e mia madre quando da ragazzo li sentivo parlare di lei e che quella stessa luce si riverberava - come  incontenibilmente contagiosa -  anche negli occhi dei miei compagni di viaggio mentre camminavano per le sue larghe strade costeggiate di palme come per farne provvista e portarsela a casa eccitati come ci si eccita dentro il freeshop di un aeroporto? Che forse era proprio grazie a quella luce che i miei primi ricordi africani avevano resistito nel buio delle palpebre abbassate nelle mie simulate morti di vagabondo delle macerie milanesi? Sì, tutto possibile. La luce di Asmara era un colpo duro, contro le mie prevenzioni nei suoi confronti. Ma non era quello il peggio.
Il peggio erano le strade pulite, la gentilezza della gente, la bellezza delle ragazze che portavano in giro la loro stupenda negritudine e che, temprate da trent’anni di guerra, trattavano da pari a pari con i maschi nell’usufruizione di una indipendenza che non era solo quella strappata all’Etiopia e di sicuro più legittima di quella conquistata dalle loro simili nei cortei per i loro diritti nelle città europee. Difficile non cadere davanti a loro innamorati stecchiti. Quello per il peggio in generale, quello che riguardava tutta la comitiva. Poi c’era il peggio privato, quello che ti riguardava personalmente. Quello che ti faceva scoprire che la strada di casa tua dove eri stato spinto sull’automobile rossa era effettivamente, come nel ricordo, in salita e la casa, dopo oltre mezzo secolo,  pressochè intatta e esattamente come la ricordavi tu. Il tutto, la luce, l’aria, le cose, come in una sorta di improvvisa, stupefacente concretizzazione di luoghi e cose che fino a quel momento avevi solo sognato - perché alla fine sostanzialmente nulla la differenza tra i ricordi d’infanzia e i sogni -  e che invece si rivelava stupefacentemente tangibile e reale.  Svegliarsi attorniato da quello che fino a quel momento avevi solo sognato. Quello significava essere tornato a Asmara. Nell’unico vantaggio che a volte possono fornire quelle sgradevoli e dure faccende che sono gli assedi, gli embarghi, le guerre, qualora siano senza troppi bombardamenti, o i regimi totalitari. Conservare i posti così come sono.
 Inquietante faccenda da qualunque parte la si guardasse, poco da dire. Così come inquietante era quindi scoprire che per circa mezzo secolo - mentre tu snobbavi perfino il suo nome -  Asmara se ne era stata ad aspettarti come una ragazza conscia della sua bellezza e dei suoi duemilacinquecento metri di statura, limitandosi a chiamarti di tanto in tanto se proprio passavi dalle sue parti. Aspettandoti al varco per prendersi  -  con la luce tersa delle sue strade, i palazzi decò che si disfacevano lentamente tra i giardini di palme, le sale da tè frequentate da anziani avventori in panama e canna da passeggio, la cattedrale dove eri stato battezzato e che adesso ospitava nel grande cortile sciami di incantevoli bambini neri in grembiulini bianchi accuditi da suore altrettanto incantevoli con larghi capelli e gonne svolazzanti, i grandi cinema mussoliniani, i monaci intenti a custodire libri rari in antiche biblioteche, le selvagge montagne intorno a proteggere tutto come invalicabili bastioni - la quieta rivincita di dirti che, lo volessi o no, eri nato in una delle città più incantevoli del mondo.
Mombasa? Tripoli? Algeri? Sembrava chiedere la voce di Asmara mentre percorrevo le sue strade e sentendola proprio come una ragazza che mi stesse al fianco deliziosa, ironica e, bontà sua, senza neanche sfottere più di tanto. Nairobi? Massaua? Cairo? Insisteva. Sorrideva, la maledetta. Mentre io stavo zitto. Innamorato stecchito sia di lei che del suo nome. Così le cose camminando nelle sue maledette strade. Finchè una mattina in albergo, facendomi la barba prima di uscire per andare al mio appuntamento con lei, mi ero di colpo fermato a guardarmi gli occhi nello specchio. Era stato quello il momento in cui avevo saputo di essere definitivamente fregato. Quando mi ero accorto che i miei occhi scintillavano nè più né meno di quelli di mio padre o di mia madre quando parlavano di lei, la maledetta. Nè più nè meno di quelli degli altri della comitiva che occupavano le altre stanze dell’albergo e che stavano aspettandomi nella hall impazienti di andare anche loro all’appuntamento con la mia ragazza. Contagiato io e contagiati loro dal più letale, dolce, inestinguibile, maledetto maldasmara, altro che storie. Quella la scoperta nello specchio. Non me ne era importato più di tanto, del fatto che anche loro avessero appuntamento con la mia ragazza. Io sapevo chi lei stava aspettando. Mi ero affrettato a raggiungere gli altri e a uscire con loro nelle strade con un improvviso, segreto, curioso pensiero. Che forse quel nome con quelle tre “a” tra la esse, la emme, la erre e quasi come fatto apposta per essere sussurrato, poteva forse essere stato utilizzato da certi suoi strenui innamorati come il mio vecchio e la mia vecchia, come chissà quanti altri, per il loro ultimo respiro. Si, perche no. Prima di mollarlo, questo schifo di mondo, ancora una volta per un ultimo momento la loro ragazza alta duemilacinquecento metri negli occhi e poi la chiusura di ogni faccenda. Sì,perché no. Asmara. Sì. Un’ultima volta negli occhi. E poi al diavolo tutto. E che non se ne parlasse più.

G.C.