Cos’è la poesia, G.C.

"Poeti e poesie" marzo 2002

     Non so esattamente cosa sia la poesia. Non avendone mai scritta, o comunque mai qualcosa da potersi, credo, definire tale, la prima  cosa che mi viene in mente è piuttosto rudimentale. Una serie di frasi che vanno a capo prima di raggiungere il bordo del foglio. Quello che però posso dire con  certezza è cosa c’è intorno, a una poesia. Dico proprio intorno, all’inizio, alla fine dei versi, tra le righe, tra una parola e l’altra e, perfino, tra le lettere stesse che compongono le parole: il silenzio.
     E’ qualcosa che può riguardare anche il cinema, il teatro, la letteratura, la pittura. A volte infatti vedendo uno spettacolo, o leggendo un libro, o guardando un quadro, a un certo punto di rendi conto che intorno a quello spettacolo, a quel libro e a quel quadro c’è qualcosa che non capisci bene cosa sia. Poi di colpo lo capisci. E’ il silenzio. E allora altrettanto di colpo capisci che quello a cui stai davanti è qualcosa di buono, di perfetto, e che il segnale del suo valore è proprio il silenzio che lo incornicia separandolo da tutto il resto  intorno.
     Per la poesia, e questo è strano, la cosa avviene anche quando la poesia non è particolarmente buona. Mentre intorno a uno spettacolo, a un libro, a un quadro non del tutto riusciti senti una specie di lieve rumore - forse il residuo del lavorìo che non è giunto a qualcosa di perfetto - le poesie, tutte le poesie, hanno sempre intorno la stessa cosa. Il  silenzio. Non so da cosa possa dipendere. Forse dal fatto che una poesia è sempre  essenzialmente un tentativo di romperlo, il silenzio, che quello, per forza di cose e anche se spezzato, resta intorno. Non lo so.
     Se poi mi si chiede che cos’altro possa essere la poesia, un’altra risposta che mi viene in mente è che la poesia, come le canzoni, è un tentativo di tirare fuori da noi stessi qualcosa che in certi momenti ci preme dentro a tal punto che non possiamo fare a meno di tirarlo fuori in quel modo. E’ anche piuttosto facile farlo. Sopratutto nel caso di poesie e canzoni che si conoscono bene. Basta avere un po’ di memoria e, se si tratta di canzoni, essere un po’ intonati oppure, in caso contrario, non avere un orecchio troppo esigente.
     E qui, credo, siamo al punto. A cosa può servire la  poesia.
    Credo che la poesia sia - soprattutto nei momenti in cui la vita ti dà addosso senza troppi complimenti fino a confonderti le idee - un modo di farti  vedere le cose come sono nella loro realtà. E’ qualcosa che non riguarda la qualità della poesia. E’ qualcosa che riguarda noi stessi. Infatti noi siamo fatti, oltre che di carne e di umori, anche delle poesie che abbiamo letto e che, a volte perfino senza accorgercene, ci portiamo dentro mentre viviamo. E questo indipendentemente dal loro valore. Perché non c’è dubbio, tanto per fare due esempi a caso, che Dante sia un poeta più grande di Eliot, lo sapeva anche Eliot, e che Petrarca sia con tutta probabilità più grande di Dylan Thomas. Ma questo non significa niente perchè se saranno di Eliot o di Thomas, i versi che con l’andare del tempo ti si saranno conficcati dentro durante la tua vita, tu sarai anche fatto, oltre che di carne e di umori,  anche dei loro versi e non di quelli di Dante o di Petrarca. Per cui  sarà  a loro e non a Dante e Petrarca che ti rivolgerai per capire te stesso e la tua vita nei momenti in cui essa perderà di significato fino a lasciarti smarrito. E così quando sarai davanti a un fiume in un momento in cui neanche un fiume potrai capire per quanto hai perduto i tuoi punti di riferimento, saranno i versi di Eliot “io penso che il fiume sia un forte dio bruno” che ti troverai a mormorare. E se sarai sconvolto per tuo padre che sta morendo saranno i versi di Thomas “non andartene docile in quella buona notte ma infuria, infuria contro il calare della luce” che mormorerai per aiutare te stesso, e tuo padre, a affrontare il momento. Esattamente come in una preghiera. Perché anche a questo può servire la poesia. A demandare a lei la tua necessità di pregare nei momenti in cui il dio in cui credi può apparirti più crudele,  insensato e irraggiungibile con altre parole.
     E’ forse questa la ragione per cui, pur non scrivendo poesie, mi capita di invidiare chi scrive versi? E’ possibile. Perché un fatto è certo. Ci sono poesie per cui darei un braccio per averle scritte io. E se è vero che una per cui darei un braccio è il cinquantacinquesimo sonetto di Shakespeare, è anche vero che darei molto anche per aver scritto, come Gaio Fratini a proposito del mondo, “E il primo giorno Dio creò la palla e il secondo il mare perché da sola stesse a galla” o, come Sandro Bajini a proposito della morte, “quando starà sulle sue quello che adesso intorno ti da del tu, quello sarà il momento” o, come Sergio Velitti a proposito degli amanti alla fine di un amore, “ e cosi soltanto la pietà del mare potrà, per noi che non abbiamo saputo naufragare, sfracellarci sugli scogli”.
     Darei molto? Per la verità a pensarci bene non darei niente perché alla fine penso che non ci sia nessuna differenza - e questo è forse un altro aspetto esclusivo della poesia - tra chi scrive poesie e chi le legge. L’emozione che detta certi versi, ne sono del tutto convinto, è infatti qualcosa che appartiene in uguale misura sia al poeta che al suo lettore. Perchè la sola cosa che realmente conti, alla fine,  è che siano stati scritti e che qualcun altro, leggendoli, ci si sia riconosciuto.

     E qui siamo a un altro aspetto, esclusivo della poesia. Il suo essere uno strumento di riconoscimento.  E non solo tra poeta e lettore ma anche solo tra lettore e lettore.  Infatti a volte può bastare  poco per riconoscere di colpo in uno sconosciuto un amico. L’ho fatto spesso. Non avendo l’invidiabile fiuto dei cani è stato spesso grazie a un verso o magari soltanto al nome di un poeta buttato lì come per caso che ho potuto riconoscere all’istante qualcuno di cui potevo fidarmi. “Rilke?” “Rilke!” O un altro nome qualsiasi.  Come una parola d’ordine. E l’affare era fatto.

     Due che navigavano in solitaria, l’uno all’insaputa dell’altro, di colpo avevano saputo di non essere più soli. Sul mare, di notte, un segnale era stato lanciato e ricevuto. Si poteva continuare a navigare.

G.C.