Sui Crusich e sullo scrivere, G.C.

 SUI CRUSICH E SULLO SCRIVERE STORIE

Ieri 8 marzo ‘17 su invito di Paolo Marati ho parlato della Malinconia dei  Crusich con un gruppo di liceali del Tasso a causa dello sciopero non foltissimo come quello del liceo di Crotone ma, come quello, attentissimo, partecipe e emozionato - qualcuno, dichiarando di avere pianto in certi momenti come la morte di Clementina -  sia per la storia che per il modo come è stata scritta. E’ stato automatico allora pensare a altri lettori, in verità non molti, tra cui alcune signore che, pur abituate a leggere, hanno  trovato la scrittura non facile da seguire per la lunghezza di certi periodi alternata a periodi brevi, a volte con il soggetto in fondo alla frase, a volte senza il verbo e a volte con ripetizioni di  concetti.   

Sono anch’io del parere, come ha già sostenuto qualcuno, che quando si dice che non ci si può staccare da un romanzo più che per la a trama è  per il tono della voce con cui il narratore racconta la sua storia. Voce che un tempo si chiamava stile e che ogni scrittore onesto cercava fosse il più  corrispondente a se stesso e,  la prima cosa che mi è venuta in mente, è stata una frase di Billie  Holiday “se devo cantare come qualcun altro è inutile che canti”. Credo che ogni scrittore debba usare il più onestamente possibile la voce che ha ed è  significativo che a venirmi in mente sia stata una frase relativa alla musica, dove la ripetizione di una frase o la sua lunghezza nessuno mette mai in discussione, perché infatti è puramente musicale, l’istinto che nel mio caso mi spinge a scrivere una storia. Forse dipenderà dal fatto che da ragazzo avrei voluto fare musica e forse l’avrei fatta se i miei avessero potuto comprarmi un piano  e trovare in casa uno spazio dove metterlo, non lo so.  Quello che so è che il mio istinto a scrivere storie è una specie di necessità di suonare una musica o cantare una canzone con parole che non producono note ma immagini e che cerco di fare nascere – cercandola, e  stonandola e da lì il mio esasperante riscrivere le frasi - finchè la musica o la canzone non corrisponde a quella che sento.

Insomma credo di essere dotato di quello che un musicista una volta, battendo sul pianoforte delle note che io istintivamente ripetevo su un altro pianoforte pur non distinguendo i tasti,  ebbe a definire “orecchio assoluto”. Ancora non so con precisione di cosa si tratti ma quello che di certo posso dire è che si tratta di qualcosa  che  mi riguarda non solo per lo scrivere. Infatti per quello che mi riguarda la realtà è  che, per qualsiasi cosa io abbia fatto e faccia nella vita, dallo scrivere, al fare teatro, al mettermi in rapporto col mio prossimo, di regola non mi serva mai tanto della mia intelligenza, che giudico tutto sommato inadeguata al mondo e al tempo in cui vivo e che quindi mi lascia insoddisfatto, quanto dell’orecchio. Per cui credo si possa dire che, per comprendere un po’ a fondo quello che racconto, più degli occhi, o comunque oltre agli occhi, servano le orecchie a fare comprendere, per esempio, come certe mie ripetizioni non siano ripetizioni ma echi o risonanze di quello che sto cantando o suonando. “Ci vuole orecchio”, diceva una vecchia canzone di Jannacci relativa al vivere. E in effetti credo che la mia sia una scrittura, più che da leggere, forse o comunque anche, da ascoltare. Una scrittura che, istintivamente, cerca insomma la complicità del lettore fino a farne, in sostanza, un coautore. Cosa che, se il lettore accetta di fare,  può portarlo a certe forti emozioni che quello che legge, o sente,  a volte può provocargli. 

Si tratta di una disponibilità che non tutti i lettori sono disposti a concedere, dal momento che ormai gran parte di quello che si pubblica cerca non la complicità del lettore, che può costargli  forse una certa fatica in quanto coautore, ma si limiti soprattutto a cercare di distrarlo o farlo rilassare. Disponibilità invece più spesso rintracciabile nelle menti dei giovani, più esplorative, non ancora narcotizzate dal mercato e ancora aperte alle emozioni. Come spiegare altrimenti che molti dei commossi lettori dell’Ultima Estate in Città siano dei ventenni e quindi nati una trentina d’anni dopo il libro? Credo in un solo modo. Che i giovani hanno più energie e curiosità della vita e quindi siano più disponibili a farsi tirare dentro un libro che li vuole coautori di una musica che, qualunque sia il tempo in cui è nata, per loro è nuova, sconosciuta e senza età. In sostanza si tratta di avere ancora le  orecchie aperte per usufruire del  potere costruttivo e rigenerante delle emozioni che, come si sa e forse a differenza delle signore in questione, sono refrattarie allo scorrere del tempo. Per cui nonostante tutto credo di poter dire che, alla fine, quello che racconto e come lo racconto abbia, perfino, una sua utilità.