La malinconia dei Crusich – Primo capitolo

FUGA NELL’EDEN

Un giorno di vento quando il mondo era ancora un posto immenso, stupendo e semplice da vivere, in un pomeriggio di febbraio dell’anno millenovecentouno, ventottesimo della sua lunga vita, settantunesimo di quella ancora più lunga del suo Imperatore, quattordicesimo prima di quel Primo Grande Massacro Mondiale che lo avrebbe dichiarato disertore e ultimo nella sua città dove non avrebbe mai più fatto ritorno, un uomo con gli occhi grigi chiuso dentro un nero cappotto da marinaio e brevi sorrisi che erano solo un balenare di denti perennemente stretti si era imbarcato su una nave da carico di ferro scura come il destino per raggiungere il porto di Massaua dove non sarebbe mai arrivato.

In rotta con la famiglia da cui aveva scontrosamente ottenuto la sua parte di patrimonio famigliare e dopo tre giorni e tre notti trascorsi nella cabina della nave ormeggiata in porto in attesa che il vento si placasse per salpare, il quarto giorno, percorse le strade munite di corde agganciate a anelli di ferro fissati ai muri delle case perché i passanti non fossero abbattuti sui selciati, era salito sulla collina che dominava la città per guardare il mare. Spinto dal vento, inseguiva furioso se stesso vomitando relitti contro la costa ma con qualcosa, al largo, di grigio e estenuato come se, sfinito dalla sua stessa furia, stesse aggrappandosi alla linea dell’orizzonte. Allora l’uomo, conoscendolo e sapendo che solo il mare poteva placare se stesso, aveva capito che quella notte la nave sarebbe finalmente partita. Per cui con quella certezza, abbottonato dentro il suo vecchio cappotto da marinaio, lo stesso che lo aveva accompagnato in altri viaggi su altre navi sempre in cerca di qualcosa che non sapendo cosa fosse non aveva mai trovato e, tra quelle navi, il veliero della Imperiale Accademia Navale Asburgica con cui era entrato a far parte di quella dura aristocrazia umana che erano i doppiatori di capo Horn, era sceso dalla collina per fare quello che doveva fare prima di partire.

Il vento continuava a spazzare la città quando, sempre aggrappandosi alle corde lungo i muri come il mare alla linea dell’orizzonte, aveva raggiunto il cimitero della città. Dove, chino su una tomba ancora fresca di cemento e resistendo al vento che gli investiva la schiena cercando di abbatterlo come un irascibile proprietario della città deciso a difenderla anche dal più infimo dei furti, aveva staccato dalla lapide la fotografia di una giovane donna sorridente vestita di bianco servendosi del suo coltello a serramanico. Poi, finito il compito e messa la fotografia nella stessa tasca del coltello e sempre aggrappandosi alle corde, aveva raggiunto il posto dove aveva deciso di vedere per l’ultima volta se stesso nella sua città. Il grande caffè pieno di specchi che lo aveva accolto con nuvole di sigari, schiocchi di palle da biliardo e saluti a cui non aveva risposto, non lo aveva visto fermarsi molto. Solo il tempo di bere lentamente un lungo e caldo caffè austriaco tenendo la tazza con due mani come un altro appiglio dopo le corde delle strade e osservando con attenzione se stesso fra gli altri avventori riflessi nel grande specchio istoriato sulla parete dietro il banco. Poi, le mani riscaldate dalla tazza e fatto un cenno a un cameriere, sempre senza rispondere a saluti aveva raggiunto la porta del locale. Il vento la scuoteva come un gigantesco avventore deciso a entrare anche scardinandola e era rimasto ad aspettare il cameriere, facendo forza sulle gambe e sulle braccia, prima la aprisse e poi la richiudesse alle sue spalle. Quindi, sempre afferrato alle corde, era tornato a battersi contro il vento. Fino al porto.

Oltrepassati i cancelli lasciati spalancati dai guardiani chiusi al riparo del vento dentro le garitte, aveva raggiunto i moli passando sotto l’ombra di altre navi da carico che in attesa di partire vibravano trattenute dagli ormeggi come grandi cetacei di ferro impazienti di prendere il largo. Poi, salito sulla sua e aggirate cataste di merci ben legate sul ponte, raggiunta la cabina, era andato a stendersi nella cuccetta senza togliersi il cappotto. Il corpo infreddolito e percosso dal vento. Addormentandosi di schianto. Come abbattuto da una scure. Per un sonno profondo come la morte in cui aveva sognato degli ulivi e da cui era uscito qualche ora dopo come un lupo sarebbe uscito da una foresta. Cauto. Mostrando i denti. Con lampi di sole negli occhi. Era stato allora che, sentendo tutta la nave tremare, era uscito sul ponte. Con calma. Guardandosi intorno. Il grande cetaceo di ferro, avvolto dal buio di una notte senza luna e ancora percorsa da lembi di vento, stava solcando il mare aperto e la costa era ormai invisibile. Allora, rientrato nella cabina con la stessa calma con cui ne era uscito, aveva acceso la lampada che la rischiarava.

Era stato quello il momento. Mentre con le mani intorno all’involucro caldo della lampada teneva i piedi ben piantati sul pavimento per bilanciare il rollio della nave ma anche, d’istinto, come per reggere un urto. Quello il momento in cui l’urto era arrivato. Facendogli come ogni volta per prima cosa stringere lo stomaco. Sapeva cos’era. Era lei. L’ombra che ostinatamente seguiva la sua vita e che, come richiamata dalla debole luce della lampada e arrivando da chissà dove ma comunque da molto lontano e da est, perché quello il punto cardinale da cui sapeva che arrivava, ancora una volta lo raggiungeva a fargli stringere lo stomaco. Quell’est dove affondavano le radici della sua razza di uomo dagli occhi grigi e dai brevi sorrisi da lupo. Forse dalle sue grandi pianure percorse da erranti pastori arrivando. Forse dai loro fuochi di torvi e solitari guardiani della luna, forse dalle loro voci intorno a quei fuochi mentre dividevano il cibo con i loro cani, forse, soprattutto, quando cantavano. O, forse e nella stessa misura arrivando, dai lampadari scintillanti accesi nei saloni dei morenti valzer di Vienna. O forse dalle case più lontane dell’impero sepolte da sterminate nevi invernali o circondate da primavere piene di farfalle, con le loro fumose cucine dominate dai ritratti del loro imperatore coi suoi occhi grigi e tristi come quelli di un vecchio dio stanco della propria immortalità.

Sì forse da tutti quei posti, nascendo. Ma in ogni caso da est, arrivando, e dalla terra e non dal mare. Sconfinata terra dal richiamo ineludibile per quanto si potesse andare per mare. Sì, era lei. La vecchia compagna dei turni di notte sui casseri delle navi delle altre sue fughe per mare in cerca di qualcosa che non aveva mai trovato. L’ombra tenace che sempre lo seguiva anche nei porti dove quelle navi lo avevano sbarcato percorrendo i moli battuti dal sole e poi nel buio dei letti di locande dove andava a cercare riparo dai suoi artigli. Lei, l’ostinata sentinella del tempo in corsa verso la sua unica meta. L’implacabile compagna degli uomini dal sangue più scuro degli altri e misteriosamente condannati a guardarsi vivere. Sì, lei. L’ombra fedele e feroce della malinconia che, tenuta a bada per tutto il giorno fino all’accensione della lampada o forse respinta dal vento di quella giornata nei recessi delle sue tane, adesso tornava a aggredirlo. Aveva sorriso il suo breve sorriso, sentendola arrivare. Nel solo modo per accoglierla. Mostrarle i denti