Menù per una signora surrealista, G.C.

Certo,
Composta di mele alla Magritte,
e un bicchiere di Savinio rosè,
e poi Breton freddo in salsa acida,
fiammegianti rognoni alla mister Bloom
e involtini cinesi in fogli di Ezra.
E poi?
E poi chele di Aragon alla Duchamp,
oppure bistecca di Chagall alla Grand Prix,
ma comunque, alla fine,
Picassata di frutta morta alla De Chirico.
E poi, quando tutti se ne sono andati,
Madeleines, signora, Madeleines del tempo perduto.
Con le noci, e le voci, del giardino di Combraj.

G.C. - 1992

Maldasmara, G.C.

"GQ" giugno 2011

All’inizio, nella tua avventurosa infanzia tra le macerie di una Milano immobile e attonita devastata dalla guerra appena finita e dove eri approdato strappato dall’Africa da una grande una nave bianca – e avresti saputo molti anni dopo che si chiamavano proprio così -  insistenti, baluginanti  immagini piene di sole. Resistenti a tutto.  Anche al buio degli occhi chiusi delle tue finte morti nelle battaglie con gli altri vagabondi delle macerie mimate a braccia e gambe aperte sul terreno delle case distrutte prima che la voce di tua madre arrivasse da una finestra a importi la resurrezione e la cena. Impossibile dire se davvero li ricordavi, nel buio delle palpebre chiuse, i volti di tuo padre e di tua madre chini sulla tua culla. Ma le altre, di immagini, quelle erano indubbiamente vere.

Tu che bambino affacciato dietro il cancello chiuso del  cortile di casa tua spiavi stupito e un po’ spaventato una danza di negri addobbati di lenzuoli bianchi che suonavano tamburi e ballavano portandosi alla bocca con le dita della polvere rossa chiamata berberè tolta da dei cartocci il tutto in una sorta di  accoglienza da parte del mondo selvaggia e festosa riservata solo a te. Poi tu,nello stesso cortile, seduto su una cassa di legno con il coperchio di una pentola tra le mani mimando un volante di automobile per, primo tentativo di seduzione, fare colpo sulla bimbetta figlia dell’abissina che aiutava tua madre nei lavori di casa. Poi la canna della bicicletta di uno zio che si prendeva cura di te, visto che tuo padre era scomparso per “andare alla guerra” e, quindi, sempre tu che giocavi con un registro di pelle nera sulla scrivania del suo ufficio allestito in una baracca di legno in mezzo a una radura piena di sassi, polvere e fichi d’india.
 In quella radura assolata e polverosa dove le tue esili gambe di ragazzino di tre anni o quattro anni ti avevano portato sfuggendo all’attenzione dello zio, il primo spavento della tua vita. Sei solo nel deserto. Un po’ smarrito ma comunque deciso a restarci. E ecco che si avvicina un negro che ti dice qualcosa. Tu non capisci e cominci a arretrare. La paura che  i suoi capelli corti e ricci, il suo volto nero e la chiostra bianchissima dei denti incutono al tuo cuore e alle tue ginocchia è immediata e totale. Più arretri e più lui si avvicina parlandoti la sua lingua sconosciuta. Suadente, pericolosa. E ecco che, messe le mani nere sotto il lenzuolo bianco, torna a mostrarle armate di un coltello che, almeno nel ricordo, scintilla nel sole. Ormai è a fare ombra su di te che, terrorizzato, non hai neanche la forza di piangere o di scappare. Poi lui alza il coltello sulla tua testa ma, invece di tagliartela di netto come tu sei sicuro che farà, se ne serve per staccare un fico d’india alle tue spalle poi, dopo averlo buttato sul terreno e averlo fatto rotolare  nella polvere sotto la pianta nuda del piede per togliergli le spine, lo sbuccia con il coltello e infine, magia gialla e oro nata dalle sue mani nere, ti porge il frutto più dolce e granuloso che mai mangerai in vita tua. Da meravigliarsi se ancora adesso, vedendo un fico d’india, ti sembra diverso da qualsiasi altro frutto anche se è sul banco di un supermercato?
Poi altre immagini, sotto le palpebre chiuse. Un natale africano - tuo padre sempre assente  e conoscerai più tardi il suono misterioso del nome  Ambalagi detto così, tutto attaccato  -  con i tuoi due fratelli più grandi di te di una dozzina d’anni che, dopo averti costruito con delle assi di legno una rozza automobile dipinta di rosso, ti spingono su per la salita di casa tua. Poi i soldati inglesi che, entrati in casa per portarvi in campo di concentramento, sequestrano  tutti i vostri suppellettili compreso il  bicchiere di latta dove bevi il tuo latte  e respingendo i tuoi attacchi per riprenderlo dal sacco di tela dove l’hanno messo. Poi il campo di concentramento dove, malato di intestino, ti nutri con il latte che i tuoi fratelli vanno a prendere strisciando sotto il reticolato per raggiungere lo zio che te lo ha portato servendosi della sua bicicletta. Poi i camion, il treno merci dove vi hanno caricato, la grande nave bianca e l’ Africa circumnavigata anche se non sai cosa vuol dire circumnavigare. Fino all’arrivo a Taranto. Dove delle signorine in divisa bianca ti avevano accolto offrendoti una cosa succosa e dolce da mangiare che si chiamava uva.
Quelle le immagini baluginanti sotto le palpebre abbassate. In qualche modo eroiche come le morti tra le macerie delle case distrutte. E il tutto in riferimento a  un nome ricorrente in casa, Asmara, dove,  ti dicevano, avevi avuto la ventura, tutto sommato apprezzabile, di nascere.
Non sapevo se mi piacesse essere nato in un posto con quel nome. Non lo dicevo perchè nessuno me lo chiedeva ma alla fine - stanco di sentirmi sfottere dai compagni di scuola perché se nato in Africa non ero nero o per lo meno un po’ abbronzato e altre amenità del genere con la conseguenza di farmi sentire una specie di oggetto estraneo tra loro nati tutti a Milano e per i quali il massimo dell’esotismo era Gallarate - avevo deciso di no. Poi, una volta evoluti i tumultuosi eroismi dell’infanzia in quelli più mirati e rigorosi dell’adolescenza, avevo finito per nutrire una insofferenza in un certo senso estetica riguardo perfino il nome stesso di Asmara. Quell’unica vocale “a” ripetuta tre volte come in una economica mancanza di fantasia  tra sillabe dove solo la erre mostrava alla fine un minimo di carattere. Un nome  decisamente antieroico, provinciale, buttato lì, per non dire addirittura asmatico se lo troncavi a metà e poi, a farmi sfiorare l’esasperazione, gli occhi  lucidi di mio padre e mia madre con la voce ridotta a una sorta di sospiro intollerabilmente quasi languido quando lo pronunciavano come dei convalescenti da una malattia che gli era piaciuto avere. Insopportabile. Da andarsene sbattendo la porta. Sì, Africa per Africa meglio sarebbe stato nascere allora, che ne so, a Addissabeba, nome reso selvaggio da quell’ammassarsi di vocali e sillabe e buono da tirare fuori con gli amici quando dovevi darti un tono, o Massaua, almeno c’era un porto, o Tripoli, così secca e dura da pronunciare, o Bengasi o, magari perché no, Mombasa, nome pieno di avventura solo a dirlo, per non parlare di Algeri, argentea e violenta e abitata -  suggestione sopraggiunta con la velleitaria decisione presa più tardi di fare lo scrittore - da Albert Camus, oppure Nairobi, nera anche solo nel nome e abitata da Karen Blixen. No, invece solo e semplicemente  Asmara. Tutto lì. Dove sei nato? A Asmara. Risposta a aggiungere a quel nome,come se non bastassero già quelle che aveva, l’esagerazione di una quarta “a”.  E dov’era poi Asmara? In Etiopia. No, anzi, in Eritrea. Bel nome anche quello. Nome che, al massimo poteva far pensare, diciamo la verità, appunto a una malattia magari della pelle. O dell’intestino, chi lo sa. Porca miseria ieri ho avuto un attacco di eritrea o robe del genere. Sì, una vera palla, da ragazzo, essere nato a Asmara. Beh, quando ti chiedevano dove eri nato l’unica era far finta di non sentire, altro che storie.
Le cose non erano particolarmente migliorate neanche diventando prima adulto e poi, coraggio diciamolo, invecchiando. Tutto sommato bastava avere pazienza quando, richiedendo qualche documento, oltre al cognome che dovevi ripetere tre o quattro volte  prima di fargli capire che il finale era “ch” e non “c” oppure “k”, dovevi aspettare che le labbra incurvate dell’impiegato, chino prima sui suoi registri e più tardi su un computer, stabilissero se Asmara era Eritrea o Etiopia per poi, alla fine,  lasciarti andare come se tu fossi un provocatore e lui uno meritevole di uno straordinario che nessuno gli avrebbe dato.
No, nessun miglioramento neanche con lo scorrere degli anni, riguardo l’esser nato a Asmara. Una faccenda da accettare come una sorta di iniziale incidente nel percorso dell’esistenza. Senza possibili rimedi. Uno nasce miope e uno a Asmara. Bastava vederla così, e buonanotte al secchio. Quanto,  eventualmente, a tornarci neanche a pensarci. A Asmara? E a farci cosa? Diversi viaggi di lavoro in Africa, sì, per sopralluoghi di film o per necessità di documentarmi per qualche storia. Ma fatti tutti con gente  a cui Asmara, appartata sul suo corno geografico e dove comunque era in corso una guerra da trent’anni, non faceva né caldo né freddo. Un po’ diverse le cose per me, bisogna dire. Si, difficile non ammetterlo ma ogni volta che sbarcavo in Africa era come se da qualche parte dentro di me nascesse qualcosa che non era definibile se non come una voce che chiamava da qualche parte verso oriente e che continuava finchè non ripartivo. Ma niente di non ignorabile, alla fine, visto che poi, tornato a casa, non si sentiva più e la faccenda era chiusa.
Chiusa un maledetto accidente. Era stato a quel punto che, finita la guerra tra Eritrea e Etiopia, il fratello più vecchio, vale a dire uno dei due dell’automobile di legno rossa, aveva cominciato a parlare di un possibile viaggio a Asmara dove anche lui non era mai più tornato da quando aveva sedici anni. Negli ultimi tempi, tra i suoi vari e numerosi incarichi sociali, se ne era assunto anche uno di dirigente della associazione dei reduci d’Africa che un paio di volte l’anno organizzava viaggi a Asmara  e mi proponeva di andarci. La sua eccitazione di tornare a vedere i posti lasciati nella sua avventurosa giovinezza, unita alla improvvisa tentazione da parte mia di dare retta alla voce che sentivo nei viaggi in Africa , è tale che dico sbrigativamente di si e pago la mia quota del viaggio per quella che finisce per rivelarsi una  fregatura dai molteplici e seccanti aspetti.
Fregatura, sì .Infatti  un paio di settimane prima della partenza lui ha un incidente che gli impedisce di partire. Cosa fare, rinunciare al viaggio e rimandare di un anno? E se poi il viaggio finiva per sfumare del tutto? Allora cosa fare, partire lo stesso, da solo, con gente sconosciuta, superando i miei preconcetti verso i viaggi organizzati? I viaggi per me sono come il  poker, meglio farli solo con gente che conosci. Ma alla fine decido di sì. E è a quel punto che la voce africana comincia farsi sentire. Come se qualcuno l’avesse avvertita di quello che sta succedendo. Vale a dire la mia decisione di darle retta.  E il risultato è che,a poco a poco, comincio a stare male.
Non è un modo di dire. Male sul serio. Come se qualcosa si fosse di colpo aperto da qualche parte molto nascosta dentro di me. Qualcosa di non definibile altrimenti che come una sorta di oscuro antro vuoto pieno di echi e di rimbombi. E comunque sono echi e rimbombi quelli che, oltre un fastidioso sudore alle mani, sento nelle orecchie sempre più prepotentemente mano a mano che il giorno della partenza si avvicina. Senza contare pulsazioni cardiache intorno ai cento e pressione a centottanta. Un effetto delle vaccinazioni, altra rottura di scatole affrontata per il viaggio? E’ con quella idea che vado da un amico medico.
Mi ausculta  l’auscultabile, preme dove  deve premere, guarda dove deve guardare, misura quello che deve misurare. Poi il responso. Vaccinazioni un accidente, dice. Prendi dei tranquillanti e parti. Sarà  Maldafrica, conclude poi sogghignando.
Detestabili, gli amici che fanno i medici. Di una irritante sbrigatività. Almeno con me. Ma quale Maldafrica, e tutte le altre volte che ci sono andato sentendomi benissimo?
Allora sarà Maldasmara, dice lui sempre sogghignando prima di invitarmi ad andarmene perché, dopo di me, ci sono dei pazienti veri.
Che il bastardo possa avere ragione posso verificarlo appena uscito dal suo studio. Più  penso a viaggio e più l’idea mi terrorizza. Si, poche storie, autentico terrore. Infatti più che un viaggio quello che mi si prospetta mi appare come un  oscuro ritorno a utero volontariamente snobbato per tutta la vita e rimasto per il tutto il tempo della stessa in paziente, ostinata attesa del momento buono per vendicarsi inghiottendomi e facendomi sparire  dalla terra così come a suo tempo mi ci aveva fatto apparire. Sì è esattamente quello che sento con agghiacciante chiarezza. Che partire significherebbe offrirsi in pasto alla vendetta di una Asmara pronta a farmi fuori, altro che storie.  Ah si? Finisco per concludere virile autorità. Così le cose? Beh allora che si fotta, Asmara. Con tutti gli asmarini e i loro occhi lucidi.
Quelli della AfricaNine sono persone perbene e mi rendono il più possibile dei soldi del biglietto. Ho il vago sospetto che, ascoltati i motivi della mia rinuncia,la cosa non gli dispiaccia affatto. Del resto chi lo vorrebbe, in un gruppo, uno scrittore ipocondriaco? Però, per la miseria,per girarmi mi girano e, il giorno della partenza, sono talmente furente con me stesso che in una riunione di sceneggiatura non emetto verbo finchè, su richiesta della dannata matrona autrice di numerose schifezze editoriali e televisive che l’hanno imbottita di soldi e sul cui libro stiamo lavorando, mi chiede cosa abbia e perché non sia partito come avevo annunciato. Mi sembra il momento buono per farle capire chi dei due è lo scrittore vero, quello sensibile se non addirittura tormentato, e così tiro fuori la faccenda dell’utero ma tutto quello che ottengo da lei sono un ghigno e una battuta sulla maggior presenza di attributi maschili da parte delle donne rispetto gli uomini.   
  Per farla breve. Frustrazione, sfottimenti e la voce africana in silenzio e probabilmente a intenta a sogghignare anche lei come la dannata matrona della sceneggiatura per circa un anno, dopo il  viaggio fallito. In altre parole catastrofico Maldasmara, come mi viene da chiamarlo non sapendo quale altro nome dargli oltre quello di, eventualmente, profonda umiliazione e implacabile rodimento. Finchè mio fratello, ristabilito, rinnova l’invito. Ovviamente nicchio ma lui comincia a spingere. Pressappoco come a suo tempo aveva spinto l’ automobile rossa, in qualche modo. E allora finisco per accettare.
Che dire, adesso,  di quel viaggio. Che il temuto oscuro utero pronto a inghiottirmi e a farmi sparire dalla faccia della terra non era per niente un antro oscuro ma anzi un altopiano dotato della luce più tersa che avessi mai visto in vita mia? Beh, sì, la luce di  quella dannata Asmara aveva già folgorato celebri scrittori viaggiatori, a quanto sarei venuto a sapere. Della somiglianza di quella luce con quella che scintillava negli occhi di mio padre e mia madre quando da ragazzo li sentivo parlare di lei e che quella stessa luce si riverberava - come  incontenibilmente contagiosa -  anche negli occhi dei miei compagni di viaggio mentre camminavano per le sue larghe strade costeggiate di palme come per farne provvista e portarsela a casa eccitati come ci si eccita dentro il freeshop di un aeroporto? Che forse era proprio grazie a quella luce che i miei primi ricordi africani avevano resistito nel buio delle palpebre abbassate nelle mie simulate morti di vagabondo delle macerie milanesi? Sì, tutto possibile. La luce di Asmara era un colpo duro, contro le mie prevenzioni nei suoi confronti. Ma non era quello il peggio.
Il peggio erano le strade pulite, la gentilezza della gente, la bellezza delle ragazze che portavano in giro la loro stupenda negritudine e che, temprate da trent’anni di guerra, trattavano da pari a pari con i maschi nell’usufruizione di una indipendenza che non era solo quella strappata all’Etiopia e di sicuro più legittima di quella conquistata dalle loro simili nei cortei per i loro diritti nelle città europee. Difficile non cadere davanti a loro innamorati stecchiti. Quello per il peggio in generale, quello che riguardava tutta la comitiva. Poi c’era il peggio privato, quello che ti riguardava personalmente. Quello che ti faceva scoprire che la strada di casa tua dove eri stato spinto sull’automobile rossa era effettivamente, come nel ricordo, in salita e la casa, dopo oltre mezzo secolo,  pressochè intatta e esattamente come la ricordavi tu. Il tutto, la luce, l’aria, le cose, come in una sorta di improvvisa, stupefacente concretizzazione di luoghi e cose che fino a quel momento avevi solo sognato - perché alla fine sostanzialmente nulla la differenza tra i ricordi d’infanzia e i sogni -  e che invece si rivelava stupefacentemente tangibile e reale.  Svegliarsi attorniato da quello che fino a quel momento avevi solo sognato. Quello significava essere tornato a Asmara. Nell’unico vantaggio che a volte possono fornire quelle sgradevoli e dure faccende che sono gli assedi, gli embarghi, le guerre, qualora siano senza troppi bombardamenti, o i regimi totalitari. Conservare i posti così come sono.
 Inquietante faccenda da qualunque parte la si guardasse, poco da dire. Così come inquietante era quindi scoprire che per circa mezzo secolo - mentre tu snobbavi perfino il suo nome -  Asmara se ne era stata ad aspettarti come una ragazza conscia della sua bellezza e dei suoi duemilacinquecento metri di statura, limitandosi a chiamarti di tanto in tanto se proprio passavi dalle sue parti. Aspettandoti al varco per prendersi  -  con la luce tersa delle sue strade, i palazzi decò che si disfacevano lentamente tra i giardini di palme, le sale da tè frequentate da anziani avventori in panama e canna da passeggio, la cattedrale dove eri stato battezzato e che adesso ospitava nel grande cortile sciami di incantevoli bambini neri in grembiulini bianchi accuditi da suore altrettanto incantevoli con larghi capelli e gonne svolazzanti, i grandi cinema mussoliniani, i monaci intenti a custodire libri rari in antiche biblioteche, le selvagge montagne intorno a proteggere tutto come invalicabili bastioni - la quieta rivincita di dirti che, lo volessi o no, eri nato in una delle città più incantevoli del mondo.
Mombasa? Tripoli? Algeri? Sembrava chiedere la voce di Asmara mentre percorrevo le sue strade e sentendola proprio come una ragazza che mi stesse al fianco deliziosa, ironica e, bontà sua, senza neanche sfottere più di tanto. Nairobi? Massaua? Cairo? Insisteva. Sorrideva, la maledetta. Mentre io stavo zitto. Innamorato stecchito sia di lei che del suo nome. Così le cose camminando nelle sue maledette strade. Finchè una mattina in albergo, facendomi la barba prima di uscire per andare al mio appuntamento con lei, mi ero di colpo fermato a guardarmi gli occhi nello specchio. Era stato quello il momento in cui avevo saputo di essere definitivamente fregato. Quando mi ero accorto che i miei occhi scintillavano nè più né meno di quelli di mio padre o di mia madre quando parlavano di lei, la maledetta. Nè più nè meno di quelli degli altri della comitiva che occupavano le altre stanze dell’albergo e che stavano aspettandomi nella hall impazienti di andare anche loro all’appuntamento con la mia ragazza. Contagiato io e contagiati loro dal più letale, dolce, inestinguibile, maledetto maldasmara, altro che storie. Quella la scoperta nello specchio. Non me ne era importato più di tanto, del fatto che anche loro avessero appuntamento con la mia ragazza. Io sapevo chi lei stava aspettando. Mi ero affrettato a raggiungere gli altri e a uscire con loro nelle strade con un improvviso, segreto, curioso pensiero. Che forse quel nome con quelle tre “a” tra la esse, la emme, la erre e quasi come fatto apposta per essere sussurrato, poteva forse essere stato utilizzato da certi suoi strenui innamorati come il mio vecchio e la mia vecchia, come chissà quanti altri, per il loro ultimo respiro. Si, perche no. Prima di mollarlo, questo schifo di mondo, ancora una volta per un ultimo momento la loro ragazza alta duemilacinquecento metri negli occhi e poi la chiusura di ogni faccenda. Sì,perché no. Asmara. Sì. Un’ultima volta negli occhi. E poi al diavolo tutto. E che non se ne parlasse più.

G.C.

Lettera di Natale, G.C.

"Il Reduce d'Africa" natale 2010

     E poi hanno il coraggio di chiedermi, mentre sto al pranzo del 25,  perché ce l’ho col Natale. Beh visto che a Natale non si può mai fare a meno di pensare a quando eravamo ancora ragazzini, se proprio volete saperlo neanche me lo ricordo più il mio ultimo Natale. L'ultimo vero, voglio dire. Quello in cui ancora non sapevi che tutta quella suggestiva faccenda su Gesùbambino era solo una dannata bufala e che  i regali  sotto l’albero te li compravano i tuoi svenandosi alla Standa. Per quanto, a dire la verità, di buoni ce ne erano stati anche dopo. Quando, dico, ormai sapevi benissimo che i lievi rumori che dal tuo letto potevi sentire arrivare di notte attraverso la porta chiusa della tua stanza non erano provocati da Gesùbambino ma dagli adulti della tua famiglia che si aggiravano furtivi per casa per farteli trovare la mattina dopo belli pronti sul pavimento sotto l'albero. Sì, perché diciamo la verità, alla fine quello che importava era che i regali sotto l’albero ci fossero e in quanto a poi chi ce li aveva messi ce li aveva messi  e buonanotte al secchio e alla tua innocenza. Poi tutto però era andato completamente a catafascio con l'arrivo di quel grassone di Babbo Natale.  Sì, perché diciamo le cose come stanno, Gesùbambino  sì che era stata una faccenda seria. Mica lo vedevi,lui. Lui era un mistero, una luce nella notte che  non potevi vedere ma che ti dava lo stesso il batticuore impedendoti di dormire e la cui prova della sua esistenza erano i regali che trovavi in casa la mattina dopo. Una casa diversa, da quella del solito. Visitata da una entità misteriosa, magica. Volete mettere con quell’osceno grassone ridanciano con la barba bianca che vestito di rosso e coi suoi  sorrisoni da mezzano finita la guerra aveva preso il posto di Gesùbambino comparendo davanti ai supermercati a agitare, come non bastasse il vestito rosso per farsi notare, perfino una campana? In sostanza era stato lui a fare fuori Gesùbambino. Da prenderlo a spintoni per tutta la lunghezza del marciapiede, altro che storie. No, guardate, se non volete litigare meglio proprio non parlarne, di quell'Erode di Gesùbambini che era stato Babbo Natale.
     Bene, e allora, visto che ne parliamo, di quei lontani Natali, parliamo anche di quell'altra cosa stupenda che erano gli alberi di Natale, se non vi dispiace. Il mondo, come tutti sanno, a Natale si dividedeva, e ancora si divide, in alberisti e presepisti. C’è chi fa l’albero e chi fa il presepe. Niente da dire, su questo. A ognuno i suoi gusti. Poi ci sono anche i megalomani che fanno tutti e due ma quelli non contano. I megalomani sono gente che non conta. Lo sanno anche loro e per quello fanno i megalomani. Nell’inutile tentativo di contare. Beh in ogni caso a casa mia - forse perchè eravamo di origine nordica dove, come si sa, gli alberi di Natale prevalgono su quelle messinscene sudiste che sono i presepi - eravamo alberisti. E così nella mia infanzia, costasse quel che costasse e qualunque le circostanze - assenza di mio padre in prigionia nel deserto o mancanza di soldi nel dopoguerra milanese -  l’albero bisognava farlo. E non solo, ma anche alto fino al soffitto. E allora in quei Natali, quando ancora la  plastica non si era messa a invaderci perfino i buchi delle orecchie, era tutto un tirare fuori da scatoloni tenuti per tutto l’anno in soffitta quelle vecchie palle di vetro di varie dimensioni, magari un po’ scrostate ma comunque lucide, coloratissime e di una leggerezza e fragilità quasi oniriche che servivano per addobbarlo. E il rumore di quelle palle  quando, arrampicato su una scala per addobbarlo, ne facevi cadere qualcuna sul pavimento mandandola in mille piccole scaglie? Un rumore lieve, secco e tragico nella sua irrimediabilità. Il crac del cuore spezzato di un angelo espulso ingiustamente dal paradiso, quel rumore lieve e tragico.
     Meno male c’erano i mandarini, a sostituirle quando se ne rompevano troppe. Sì, perchè era con quelli, oltre che con certi piccoli torroncini chiusi dentro scatolette di cartone colorate e disegnate con disegni di Giotto che, non essendoci i soldi per ricomprarle, si sostituivano le palle schiantate sul pavimento. Oltre che con le candeline. Quelle vere, quelle di cera naturalmente. E spesso erano proprio loro, le candeline, a provocare le perdite delle palle. Quando tremanti e in bilico sulla scala si cercava di accenderle. Perchè provateci voi a stare in bilico su una scala a sporgervi con un fiammifero acceso tra le dita tra i rami odorosi di resina che vi pungevano la faccia, e accendere una candelina senza urtare neanche una palla di vetro. Sì, faccenda da acrobati professionisti, l’addobbo dell’albero di Natale, altro che storie.
     E quando dopo l’epifania tutte le feste si porta via bisognava smontare l’albero?  Beh, quello era ancora peggio perché nelle due o tre settimane passate in casa lui - oltre essersi svuotato di tutti i torroncini che facevi fuori magari di notte quando gli altri dormivano e lasciando appese tra i rami  solo le scatolette vuote - si era così rinsecchito che i suoi aghi erano diventati così duri e pungenti da rischiare di accecarti gli occhi. Sì, era per quello  - oltre che per la tristezza del Natale ormai finito  e di tutti i torroncini fatti fuori  - che  quando si smontava l’albero  si imprecava molto di più di quanto non si fosse imprecato pungendosi nel montaggio. Sì, faccenda da nervosi, iconoclasti fachiri, lo smontaggio dell’albero, altro che storie.
     Tutto sommato faccenda meno acrobatica e pericolosa mettere su un presepe. Cosa che a volte, nella mia infanzia milanese e visto che noi eravamo alberisti, andavo a fare a casa di qualche mio amico. A parte la mancanza, non secondaria, dei torroncini, bisogna dire che in effetti  mettere su un presepe non era poi neanche tanto male. Quando tenevi in mano il muschio - quello vero, dico, che andavi a staccare dagli alberi del Parco Sempione o dalla fontana dell’Acqua Marcia -  provavi una specie di circospetta cautela quasi simile a quella che dovevi usare con le palle d vetro dell’albero. E lo stesso era quando tenevi in mano le pecore o i pastori di gesso. Chissà perché, visto che non c’era il rischio di romperli. Ancora più cautela, poi, ti veniva da usarla quando tenevi in mano Gesubambino, così roseo da aver paura di fargli male, o la Madonna, di solito inginocchiata e chiusa nella sua veste celeste. Mentre diverso era invece il caso dei  Re Magi. Loro infatti potevi perfino un po’ snobbarli, visto che tanto erano pressoché degli estranei che si facevano vivi solo  all’Epifania. Ma era soprattutto con San Giuseppe, che non sapevi bene come comportarti.
     E qui siamo al punto più importante, per quanto riguarda mettere su i presepi, San Giuseppe. Sì, perché lui infatti non incuteva mai niente. Né rispetto nè timore né qualsiasi altra cosa. Beh, vi dico subito che se, come credo si sia capito, ormai da  un pezzo sono parecchio seccato per come si sono messi i Natali, una delle ragioni è anche dovuta al fatto che  ancora oggi  nessuno gli dà un po’ di considerazione, a  San Giuseppe. Anche nei presepi di adesso. Anche in quelli sterminati e con tanto di sponsor che mette su il Comune. Sempre la stessa faccenda, per San Giuseppe. Anche lui inginocchiato vicino a Gesubambino come la Madonna, sì,  ma sempre dentro un mantello squallidamente marrone, sempre con l‘aria di essere appena rientrato nella grotta dopo aver fatto la legna o spazzato via dal pavimento gli escrementi del bue e dell’asino. Uno con l’aria di averne passate di tutti i colori di cui una, diciamo la verità, piuttosto tosta come ritrovarsi la moglie messa incinta da non si capiva bene chi, San Giuseppe. Uno sfigato come pochi. Succube della moglie e degli eventi. Così San Giuseppe. E il fatto, poi, che nei duemila anni seguenti sono state scritte intere biblioteche sulla Madonna e niente su di lui? E il fatto, ancora più grave, che lui non lo vede mai nessuno? Sì, spiegatemi questa. Per duemila anni e ancora oggi un sacco di gente va in giro dicendo di aver visto la Madonna, certi magari diventando perfino santi, e mai nessuno, dico nessuno, che dica di aver visto San Giuseppe. Roba da far pensare che se pure qualcuno magari qualche volta lo ha visto se ne è stato zitto per paura di essere rincorso e riempito di botte da tutti quelli che invece vedono la Madonna, altro che storie.
     Sì, proprio mai nessuna considerazione da parte di nessuno, per San Giuseppe. Neanche da parte dei suoi capi su nel Regno dei cieli ai quali pure gli aveva fatto comodo, fargli fare da prestanome in tutta la faccenda della nascita di Gesùbambino. Altra inconfutabile prova che da quelle parti, parlo del Regno dei Cieli, nonostante tutta la pubblicità in proposito, non se li filino mica più di tanto, i poveri cristi della terra.  Volete un'altra prova di come nel Regno dei Cieli snobbino i poveri cristi qui giù sulla  terra perfino a Natale? Va bene, allora prendete la Piccola Fiammiferaia. Solo un sacco di retorica buonista, su quella povera bambina sotto la neve all’angolo di una strada a soffiarsi sulle dita per scaldarsi in attesa di morire di freddo e di fame nella notte di Natale e che poi riceve dal cielo un sacco di cose buone da mangiare. Beh, sapete come invece come, secondo quello scrittore che la sapeva lunga sui rapporti tra cielo e terra che era Ambros Bierce, erano andate in realtà le cose? Che il Padreterno, vedendola sofferente e affamata a soffiarsi sulle dita, decideva di farle un bel regalo di Natale spedendole dal cielo della roba da mangiare, sì, ma anche, una volta dato l’ordine in proposito, mettendosi a fare cose più importanti e  dimenticandosi così di far chiudere in tempo il rubinetto, per così dire. E con che risultato? Che per mezzora dal cielo aveva continuato a piovere una  quantità terrificante di derrate alimentari come sacchi di farina, quarti di bue, maiali già arrostiti, tacchini da trenta chili, casse di frutta e verdura e quant’altro, come dicono  quelli che sanno darsi un tono. Insomma tanta di quella roba che la gente si era precipitata fuori dalla case a far provvista di tutto quel, è il caso di dirlo,  ben di Dio. Ultimo a arrivare era stato un certo Tom che, dato il ritardo con cui era arrivato , tutto quello che aveva trovato era stata la Piccola Fiammiferaia spiaccicata come una sfoglia di pasta fatta in casa sull'asfalto della strada per tutta quella roba che le era caduta addosso. Al che, non essendoci più altro da prendere, l’aveva staccata con cura dall’asfalto, se l’era arrotolata sotto il braccio e poi l’aveva portata a casa dove la moglie, dopo averla srotolata sul tavolo della cucina, gli aveva detto che era proprio uno scemo. Ma come, tutti gli altri avevano preso roba da mangiare come sacchi di farina e quarti di bue e lui tornava a casa solo con una carta geografica?
     Ecco come nel Regno dei Cieli tengono in consierazione i poveri cristi della terra perfino a Natale. San Giuseppe compreso. Da chiedersi perfino perché i suoi capi lo abbiano fatto santo. Per pubblicità? Per tenere buoni tutti i San Giuseppe della terra facendogli sapere che, campa cavallo, anche loro un giorno potrebbero  diventare santi? Mah, perché no, ormai li conosciamo, che tipi sono là nel Regno dei Cieli, e potrebbe anche essere. Comunque cosa volete che vi dica, forza a tutti i San Giuseppe che ci sono in giro. E, se ancora ha qualche senso dirlo,  Buon Natale a tutti.

G.C.