Martinalgia, G.C.

MARTINALGIA  di G.C.

L'uomo fortunato coi capelli grigi e il resto della sua vita nella tasca destra della giacca, spinta la porta girevole dell'albergo reso vuoto dal pomeriggio che invece fuori intasava di traffico le strade e accolto da un ovattato silenzio che in contrasto col rumore dell'esterno restituiva in qualche modo all'albergo una sua scomparsa signorilità – ormai era diventato soltanto meta di comitive di turisti a quell'ora in giro per la città cosa che insieme all'andata il pensione di Aldo il Barman lo aveva spinto da anni a smettere di frequentarlo – era avanzato sul lucido pavimento di marmo dell'atrio vuoto fino a raggiungere il banco deserto del bar.

Poi, seduto su uno degli sgabelli vuoti intorno al banco con la vecchia impressione di sempre, che un banco bar fosse qualcosa di simile al ponte di comando di una nave – impressione forse dovuta alle giacche bianche dei barman o forse alla contenuta autorevolezza dei loro gesti o forse al beccheggiare che poteva provocare quello che su quei banchi veniva servito – e aspettando che il barman comparisse dalla piccola porta che dava sul retro ricavata nello scaffale delle bottiglie e domandandosi se fosse ancora il vecchio aiuto succeduto a Aldo il Barman, aveva cominciato a guardarsi intorno nell'albergo vuoto cercando di capire perché passandoci davanti avesse improvvisamente deciso di entrarci. “Mah, nostalgia di Aldo il Barman, forse”, si rispose evasivo chiamandolo come sempre lo chiamava pensando a lui vale a dire come se la qualifica di barman fosse nel suo caso una sorta di cognome o di particolare onorificenza.

Pensiero che però a dimostrazione che non avrebbe potuto cavarsela con l'evasività per spiegare la sua presenza su quegli sgabelli, aveva prodotto il gesto automatico che ormai da tre mesi a quella parte aveva sostituito quello di accendersi una sigaretta quando cominciava a pensare a qualcosa. Le punte delle dita della mano destra a percorrere sotto la sua costosa camicia – col tempo aveva coltivato il tutto sommato perdonabile vezzo di fare delle camicie costose il segno esteriore del suo successo professionale dopo una ostinata giovinezza molto avventata e molto senza soldi – il cordone della cicatrice che dallo sterno gli arrivava dieci centimetri sotto l'ombelico e che lui da tre mesi a quella parte aveva preso a chiamare con accettabile sportività Quindici per Cento.

Quella infatti la percentuale di successo per quel tipo di intervento secondo il vecchio luminare – camice bianco e aria da intransigente asceta vegetariano – che lo aveva aperto. “Lei è un uomo fortunato”, le sue parole prive di qualsiasi clemenza – mai aspettarsene dagli asceti – quasi si trattasse di una colpa su cui solo il suo rigore professionale gli aveva permesso di transigere aprendolo e richiudendolo dopo avergli tolto quello che c'era stato da togliere. Parole ripetute con la stessa sostanziale riprovazione anche quello stesso pomeriggio consegnandogli il referto dell'ultimo esame a cui lo aveva sottoposto e dal risultato dal suo punto di vista evidentemente del tutto immeritato che lui si era messo nella tasca destra della giacca senza leggerlo sapendo già cosa significava. Il resto di una vita con le debite cautele e, a scanso di incidenti imprevedibili come nel caso di chiunque altro, accettabilmente e, chissà, forse anche soddisfacentemente lunga.

Previsione che, fin dal momento in cui si era messo il referto in tasca senza leggerlo in un inutile tentativo di sfidare lo sguardo privo di qualsiasi possibilità di appello del luminare a patto, forse, di cadere in ginocchio davanti a lui folgorato da una totale conversione a insalate con aceto balsamico e zucchine bollite, lo aveva portato a pensare a qualcuno che non aveva avuto la sua stessa fortuna e che in quel momento avrebbe voluto avere al suo fianco per essere almeno in due a vedersela con il severo asceta. Vale a dire quello che da quattro anni a quella parte ripensandoci e sempre socchiudendo gli occhi come per vederlo meglio e sempre senza poter fare a meno di sorridere ormai chiamava solo Vittorio Senza Ghiaccio.

Per cui, approdato a quel bancone deserto – deserti o no i banconi di bar sono i posti migliori per ricordare – individuata tra le bottiglie dello scaffale quella di Lagavulin si era ritrovato di nuovo a pensare a Vittorio Senza Ghiaccio che, come gli avevano raccontato, a occhi chiusi nel letto di una clinica alla domanda dell'infermiera che lo assisteva nelle sue estreme necessità se desiderasse qualcosa aveva risposto con uno stupefacente e sogghignante “Sì, senza ghiaccio”. E non ci sarebbe stato da socchiudere gli occhi e sorridere?

Sì, dovendo fare una classifica – senza sapere bene perché da quando si era ritrovato a portare in giro Quindici per Cento sotto la camicia aveva cominciato a coltivare una quasi automatica tendenza a fare classifiche su tutto – probabilmente Vittorio Senza Ghiaccio era in cima alla classifica dei suoi amici. Aveva avuto la fortuna di averne avuti molti, come mogli e fidanzate del resto e sempre senza riuscire a stabilire se avesse amato di più gli uni o le altre, per cui non facile la scelta della prima posizione. Ma, a mettere Vittorio Senza Ghiaccio probabilmente in prima posizione, c’era il ricordo di un loro pranzo in una trattoria di campagna prima che entrasse in quella clinica quando, regista scontento del suo successo commerciale e sempre con il Lagavulin in una fiaschetta d'argento in tasca, camminandogli al fianco su una strada costeggiata da prati su cui l'estate spediva i suoi ultimi bagliori, gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto fare lui nella vita invece che l'architetto. “Io il cantante di piano bar”, aveva proseguito lui tranquillo senza aspettare la sua risposta forse presentendo che per quello che lo riguardava non era più il caso di perdere tempo a aspettare risposte. “Vuoi mettere una vita a cantare Night and Day o Theese foolish things?” aveva concluso continuando a camminare e mettendosi a sorridere e a cantare a bassa voce e con molto sentimento prima quelle due vecchie canzoni e poi tutte le altre che gli tornavano alla mente mentre lui gli camminava al fianco in silenzio guardando i prati baluginare sotto l'estate che se ne andava.

Sì, probabilmente Vittorio Senza Ghiaccio, in cima alla classifica, si disse ricordando quella passeggiata tra prati ancora illuminati e sentendo di colpo l'improvvisa necessità di una sigaretta come se per accompagnare i suoi pensieri nella direzione che sentiva stavano prendendo non fosse sufficiente passarsi le dita sopra la camicia. “Uno che la sapeva lunga su cosa potessero significare nella vita le canzoni”, si disse ancora continuando a pensare a lui.

Per poi, per cercare di smettere di pensare a loro due su quella strada tra i prati di quel fine estate e respingere la voglia di fumare, mettersi a pensare a una classifica delle canzoni che preferiva.

“Tutte le più vecchie possibili” stabilì subito “perché niente come le canzoni a fare compagnia alla gente alle prese con la propria vita e più cuori distrutti hanno raggiunto e più meritano di stare di fianco a Dio” concluse senza tema di accostarle al Padreterno.

“Addirittura”, disse una fastidiosa voce da qualche parte vicino a lui e con cui da tre mesi a quella parte si trovava a doversela vedere.

“Sì” disse lui con uno scatto di autorità che sapeva arrivargli in qualche modo da Quindici per Cento sotto la camicia e che lo portava a non transigere con nessuno compreso il Padreterno. “Proprio”.

“Va bene, va bene”, disse l'altra voce conciliante, “fa la classifica, allora”.

“Ma l'amore no, la migliore canzone italiana di sempre”, disse lui conciliato, “poi tutte quelle di Gershwin e Porter, poi Je ne regrette rien della Piaf, poi My way di Sinatra, in che ordine non lo so. E poi Maledetta primavera di Loretta Goggi” disse di colpo aggressivo “Qualcosa in contrario?”.

La voce taceva e lui proseguì. “E poi le musiche di Mario Nascimbene anche se non sono canzoni ma musiche da film”, disse per cambiare discorso e sorvolare su Maledetta Primavera che, anche a costo di farsi scannare non lo avrebbe mai confessato a nessuno, da anni ogni volta che gli capitava di sentirla riusciva a fargli stringere la gola.

Quanto all'aggrapparsi alle musiche di Mario Nascimbene per sorvolare su Maledetta Primavera poteva farlo avendole ascoltate alla radio nel cuore della notte precedente. Una delle conseguenze di Quindici per Cento o forse solo della vecchiaia incipiente – non avrebbe saputo dirlo essendo la prima volta che invecchiava – era come se il fisico stesse progressivamente diventando indipendente dalla mente e facesse quello che voleva lui compresi certi risvegli notturni che avevano finito per fagli scoprire la compagnia che può fare di notte una radio vicina a un letto. E, la notte precedente in una trasmissione chiamata Al Cinema con gli Occhi Chiusi, titolo che aveva trovato molto appropriato, aveva potuto ascoltare a lungo le musiche di Mario Nascimbene trovandole bellissime sopratutto quella della Contessa Scalza che era un film con Bogart e Ava Gardner che aveva visto da ragazzo. Che fosse la ragione di aver visto quel film da ragazzo che gli erano piaciute tanto?

La domanda, ironica, era stata della voce da qualche parte vicino a lui.

“No” rispose di nuovo aggressivo “erano bellissime e riempivano la notte di immagini come nessun'altra musica avrebbe potuto fare. Fantastiche”.

“E una classifica dei film?” disse la voce tornando conciliante.

“Primo Il Mucchio Selvaggio”, rispose subito sogghignando virilmente. “La miglior storia sull'amicizia mai girata”, aggiunse poi pensando che sì, forse erano gli amici a prevalere su mogli e fidanzate.

“E anche sulla vecchiaia”, disse la voce sfottendo ma con amabilità.

“Mi era piaciuto anche la prima volta quando lo avevo visto da giovane” disse lui sempre con aggressività senza badare al fatto che la voce da quando erano in quel bar poteva avere una amabilità che prima non aveva mai avuto e ripensando, ma solo per un momento perché era qualcosa che lo metteva a disagio, a se stesso giovane. Poi era tornato a pensare all'immagine che preferiva di quel film. William Holden, Ernest Borgnine e Warren Oates che, dopo una notte con povere prostitute messicane e senza una parola tra loro, si armavano fino ai denti per scendere a piedi la strada piena di polvere verso il forte del generale messicano per salvare il ragazzo e a dare poi vita al più fantastico massacro girato dal cinema. “Sì, fantastico”, disse sentendosi improvvisamente un po' come loro che scendevano la strada polverosa verso il forte messicano.

“C'era anche il vecchio Robert Ryan” disse la voce “l'amico che li braccava senza volerli prendere”.

“Sì” disse lui pensando a Robert Ryan seduto nella polvere fuori dal forte a guardare sorridendo i cadaveri dei suoi amici coi quali avrebbe voluto ancora essere mentre venivano caricati su un carro dai cacciatori di taglie che lui comandava. “E tutte quelle immagini di loro che ridevano nel finale del film? Ah Cristo...” disse piano ripensando a Vittorio Senza Ghiaccio e altri amici che se ne erano andati e quindi sentendosi non più come Holden e gli altri che andavano verso il massacro ma caso mai come Robert Ryan che stava seduto nella polvere a vederne i cadaveri.

“Fanculo” disse sentendo l'improvvisa necessità di fare comunque anche lui qualcosa di duro. “Ma dove cazzo sarà andato” disse poi tra i denti guardandosi intorno alla ricerca del barman che continuava a non farsi vedere e tornando a chiedersi se potesse essere  il vecchio aiuto di Aldo il Barman. Poi vide qualcosa che non aveva visto prima. Un campanello di bronzo sul ripiano del bancone nell'angolo opposto a quello dove era seduto lui. Allora, anche se non con la risolutezza di Holden e gli altri che scendevano nella polvere verso il forte messicano ma lo stesso accettabile e comunque non potendo fare altro, lasciato lo sgabello era andato a colpire con la mano aperta il pulsante sopra il campanello. Facendolo risuonare secco, duro e bronzeo. Come un colpo di pistola.

“Un'acqua tonica”, la sua dura e concisa richiesta una volta comparso il barman. Non era il vecchio aiuto di Aldo il Barman ma un ragazzotto grassoccio e foruncoloso con una macchia forse di caffè sulla giacca. Buono al massimo per servire turisti assetati al ritorno dai loro giri nella città. Probabilmente un distributore a getto continuo di aranciate o, nei casi più ardui, spritz neanche col Campari, i soli spritz accettabili, ma con l'Aperol, il ragazzotto. Tipo che alla richiesta di un Martini avrebbe probabilmente dovuto sfogliare il manuale illustrato dei cocktail in bella vista tra le bottiglie dello scaffale come uno spaesato e foruncoloso archeologo alle prese con un libro scritto in una lingua morta. Ma, riguardo l'acqua tonica – richiesta fatta in base all'elenco di cautele che sapeva contenute nel referto nella tasca della giacca – il ragazzotto se l'era cavata egregiamente e l'aveva versata in un grosso bicchiere da gin tonic stipato di ghiaccio e corredato, anche se troppo spessa, di una mezza fetta d’arancio.

Il tutto, ovviamente, a riportarlo a Aldo il Barman. E, di colpo, di nuovo la necessità di una sigaretta insieme a un vago rimpianto – relativo solo agli attacchi di astinenza più acuti – per la rinuncia a quella elettronica che dopo due giorni aveva buttato nel Tevere sentendola come una sorta di fredda protesi tascabile e, forse oltretutto perché nera, vagamente jettatoria. Il fatto è che pensare a Aldo il Barman li faceva molto avvicinare, i maledetti passi ovattati che da tre mesi a quella parte gli giravano intorno assediandolo. Pronti a aggredirlo nelle più svariate occasioni e da cui aveva sentito l'istintiva necessità di difendersi con una specie di immaginario fossato circolare intorno a se stesso o che comunque lui aveva stabilito di sentire tale. Per un momento provò a tentare di respingerli oltre il fossato, i maledetti passi ovattati, con una manovra diversiva. Vale a dire mettendosi a pensare in quale posizione della classifica degli amici avrebbe potuto collocare Aldo il Barman. Ma era stato un tentativo patetico. “Nessun posto” si era ritrovato quasi automaticamente a rispondere “ma di sicuro in posizione alta in quella dei nemici”, aveva proseguito riprendendo a sorridere e accettando di lasciare che i passi ovattati attraversassero il fossato e facessero quello che volevano.

E così, riportato dai passi ovattati, il ricordo color crema della giacca di Aldo il Barman ma, anche, a trascinarsene dietro un altro. Questa volta bianco e folgorante. Quello di un passo deciso di donna a fare ondeggiare una gonna bianca plissettata rendendola arrogante come un guanto di sfida lanciato ondeggiante verso tutti gli uomini che avessero la ventura di guardarla. Sfida che bastava risalire dalla gonna a un volto irridente reso selvaggio dalla bianca falce dei denti e dai capelli orgogliosamente crespi, per sapere che sarebbe stata persa in partenza. Insomma lei, Maura Denti di Volpe, dietro il ricordo color crema della giacca di Aldo il Barman.

“Un storia a tre” si disse l'uomo sorridendo per cercare di tenere a bada l'immagine di lei e ripensando alla loro storia che il caso aveva voluto fosse vegliata per tutta la sua durata da Aldo il Barman. Storia iniziata letteralmente strappandola, Maura Denti di Volpe – e prima o poi avrebbe  capito che significato poteva avere quel suo modo di chiamare da tre mesi a quella parte la gente che gli capitava di ricordare vale a dire non soltanto con il loro nome – al ricco cliente per il quale, nella tardiva decisione di tentare un addio alla sua ostinata giovinezza senza soldi per cominciare il suo viaggio verso le camicie costose, avrebbe dovuto ristrutturare una villa al mare. Villa che il ricco cliente aveva avuto la sventura di fargli visitare con lei, oggetto di un suo implacabile e inutile corteggiamento, appoggiata alla balaustra di un terrazzo a fumare sigarette senza degnare di uno sguardo il mare alle sue spalle e riservandolo invece ai due uomini che si aggiravano per la villa parlando di soldi e di progetti. Lei fissandolo e sfrontatamente aspettando che lui facesse quello che alla fine aveva fatto. Infilare il suo biglietto da visita nella borsetta lasciata, per tutto il tempo dei suoi discorsi col cliente, aperta sul tavolo del terrazzo come in una dichiarata sfida.

Dal punto di vista architettonico, per così dire, due risultati diversi ma ugualmente determinanti, quelli prodotti dal biglietto lasciato cadere nella solita confusione tenuamente colorata di tutte borsette delle donne dove spiccava il rosso di due pacchetti di Marlboro ancora intatti oltre al terzo pacchetto aperto sulla balaustra che dava verso il mare. Il primo risultato consistente nel naufragio del restauro della villa, il tipo ricco non aveva accettato le conseguenze del biglietto lasciato cadere nella borsetta affidando il restauro a un altro architetto e provocando così il forzato proseguimento della sua ostinata giovinezza senza soldi e, il secondo, l'incontro con Aldo il Barman. Incontro a costituire una  sorta di ben preordinata simmetria con tutta la storia con lei, vista l’entrata in scena di Aldo il Barman proprio il giorno del loro primo appuntamento. In uno dei bar di piazza Navona. Con le fontane che scrosciavano nella piazza fuori dal bar come chiassose sorgenti sotto il cielo grigio – era una giornata in cui una restia primavera sembrava voler riprendersi le sue iniziali lusinghe come una sfuggente e bizzosa sgualdrina di buona famiglia – del tumultuoso torrente che li aspettava. Con Aldo il Barman – ma il suo nome era ancora sconosciuto e lui solo un bruno, elegante e ironicamente condiscendente sacerdote alcolico di mezza età in giacca color crema dietro il banco – che dalla sua postazione e con l'intuizione di tutti i buoni barman potenziata da una secolare sagacia partenopea, comprendendo al volo il loro essere sulla riva di un torrente da affrontare e con tutte le incertezze del caso, li aveva corroborati con quanto di assolutamente necessario. Un limpido e gelido Martini per tutti e due uno dei quali guarnito da un vezzoso e sacrilego ombrellino di carta lilla sul bordo del bicchiere di lei e da lei accolto con un lieve strizzamento d'occhio più eloquente di qualsiasi discorso.

Eh sì, così le cose tra lei e l'ironicamente condiscendente Aldo il Barman. A partire fin da quella prima volta quando – il Martini replicato due volte fino a corroborarli a sufficienza – erano usciti dal bar sospinti da quel suo alcolico, doppio e benedicente viatico per abbandonarsi nel torrente che li aspettava. Vale a dire prima l'attraversamento della piazza nel rumoroso scrosciare delle fontane e poi l’approdo,  nei vicoli intorni,  al lussuoso e riservatissimo piccolo albergo dove alloggiavano i politici del vicino Senato e dove lui, spendendo tutti i soldi che aveva in tasca, aveva affittato una stanza come in un qualunque albergo a ore.

Quello l'effetto di quel primo Martini, e per la precisione dei primi due, per entrambi. Per poi ritrovarsi due ore dopo a togliersi in fretta e furia i bianchi accappatoi con tanto di nome e simbolo dell'albergo ricamato sulla spugna per permettere a lei di rivestirsi e precipitarsi a casa a accudire due figli di sette e nove anni nati da un matrimonio terminato col sostanzioso appannaggio del ricco marito dal quale aveva battagliosamente divorziato.

Quello l'effetto del loro primo Martini e per la precisione dei primi due. A aprirne una serie di innumerevoli altri per tutti i tre anni della loro storia e sempre per usufruire dell'effetto partenopeo – così ambedue avevano preso a chiamarlo – che solo quelli di Aldo il Barman sapevano provocare. Ovunque la sua attività estiva di elegante e ironico sacerdote alcolico potesse condurlo tra cui, loro meta preferita, il piccolo bar di una appartata cala dell'Argentario dove lui d'estate andava a preparare le sue misture sempre rese efficienti e inattaccabili da tutto, anche dal mare che sciacquava nel sole giù in fondo alla cala.

“Sì, migliori di tutti gli altri, i barman napoletani”, sentenziò deciso tra gli sgabelli vuoti ripensando a Aldo il Barman. “Ma amico un accidente” aggiunse sorridendo ripensando all'inevitabile e sacrilego ombrellino lilla con cui lui corredava i Martini per lei. “E lei Maura Denti di Volpe con l'altrettanto inevitabile strizzata d'occhi? Una sgualdrina romana e anche delle più sgualdrine, altro che storie”, disse ricordando che aveva usato lo stesso termine anche ripensando alla reticente primavera del loro primo incontro. “E allora?”, si disse aggressivo. “Mi piacciono le parole che non usa più nessuno, e allora? Anche i Martini non li beve quasi più nessuno. Tutti con quei cazzi di spritz, ormai. E allora?”

E allora di colpo, seduto a quel bancone con le mani intorno al bicchiere di acqua tonica lui, uomo fortunato, si era reso conto che era stato felice molte volte nella vita e che nel caso di Maura Denti di Volpe lo era stato forse più di altre. Di nuovo era tornato a sorridere, pensando a loro due dentro il torrente nato dalle scrosciati fontane della piazza. “A scopare come forsennati ovunque capitasse, altro che storie”,  disse ripensandoci, “macchina, ascensore, per strada e fuori da ristoranti e bar. Le sue gonne plissettate preferibilmente bianche facili da tirare su nell'ombra del primo angolo di strada abbastanza scuro”. “Potrebbero vederci”, la sua frase la prima volta che era successo  per strada da quel bigotto perbenista che ogni tanto gli capitava di essere e guardandosi intorno dopo essersi precipitati fuori da un ristorante dove avevano cenato. Tutti e due al precario riparo di un cancello tra palazzi con le finestre ancora accese e i passanti che camminavano rassegnati verso le loro case sui silenziosi marciapiedi della notte.

“E hai detto niente”, la sua sfottente e felice risposta non mollando la presa e spingendolo ancora di più contro il cancello.

“Eh sì, cazzo. Felice con Maura”, disse per una volta tanto senza aggiungere Denti di Volpe.  Troppo concentrato sul bicchiere vuoto che aveva tra le mani e sul ricordo di lei, per aggiungere qualcosa al suo nome. E, soprattutto, di colpo totalmente impegnato a cercare di ricordare qualcosa che gli stava sfuggendo e che, ripensando a lei, gli stava bussando con insistenza alla mente come se i passi ovattati, solcato il fossato, ci stessero sguazzando dentro sollevando schizzi e dando vita a  un vero e proprio maledetto assalto per fargli ricordare, lì appoggiato al banco con il bicchiere d'acqua tonica tra le mani – tutto lì il suo fossato – quello che stava cercando di ricordare. Qualcosa che bussava furiosamente contro la mente come per uscire da un maledetto ripostiglio chiuso da anni. “Oh cazzo” disse all'improvviso riuscendo di colpo a aprire il ripostiglio. “Ma sì, certo, cazzo”, disse incredulo, “Maledetta Primavera, cazzo”.

E allora, come di colpo uscita dal ripostiglio chiuso per anni, una immagine precisa e lancinante. Lei, Maura – e ancora tornando a chiamarla solo col nome – sul sedile del passeggero della sua macchina che tenendogli una mano sulla coscia mentre guidava – il gesto che sentiva come il più intimo che una donna potesse fargli – e di ritorno da un Martini all'Argentario, sfottendo la voce di Loretta Goggi che usciva alta dall'autoradio cantava anche lei con ironico e esagerato abbandono la canzone. Nel vento dell'estate che entrava dai finestrini. Con lei in macchina e tutto il resto del mondo fuori dai finestrini immerso nella luce sfolgorante della giornata che battendo sul mare lo faceva scintillare lungo tutta la strada.

“Oh cazzo” disse senza più troppa voglia di sorridere. Gola troppo chiusa e troppa devastante voglia di una sigaretta per avere voglia di sorridere. Continuò a tenere duro cercando nei passi felpati che lo assediavano qualcosa che potesse contrastare il nodo alla gola finché non lo aveva trovato. Lei che in seguito a un tracollo finanziario del marito lo avvertiva della presenza di un altro tipo ricco che avrebbe potuto provvedere a lei e ai suoi figli e chiedendogli cosa ne pensava. Era comunque qualcosa a cui lui ancora senza soldi non avrebbe potuto supplire e era stato zitto. A lungo. Non poi così a lungo a pensarci bene. Ma sufficiente perché lei, davanti al banco e sotto lo sguardo partenopeo di Aldo il Barman, prendesse con due dita l'ombrellino lilla rimasto nel bicchiere vuoto e, con un'ultima strizzata d'occhio a Aldo il Barman, uscisse dal bar. La gonna plissettata a muoversi al suo passo deciso come la bianca bandiera di un libero vascello in partenza verso lidi sconosciuti che ormai non l'avrebbero più riguardato. L'ombrellino di carta tenuto con due dita sopra la testa. Come per ripararsi da una pioggia che non c'era. Prima di sparire dalla sua vita.

“Sì, passato troppo tempo da quell'addio senza tragedie, per avere nodi alla gola” si disse ricominciando a sorridere anche se per farlo occorreva un certo sforzo. A farlo sorridere, sia pure con sforzo, il ricordo di lui e Aldo il Barman dopo l' uscita di scena di lei. Avevano continuato a vedersi negli anni successivi, lui e Aldo il Barman. I primi tempi quasi ogni sera nel bar di Piazza Navona. “Due vedovi di poche parole” si disse ricordando. Con Aldo il Barman a mettergli davanti due Martini anche se lui era da solo uno dei quali guarnito da un ironico ombrellino lilla e che lui beveva per secondo togliendo l'ombrellino e facendolo ruotare tra le dita mentre glielo restituiva. Poi, col trasferimento di Aldo il Barman in quell’albergo ancora non ceduto al turismo, i loro incontri si erano diradati. Solo di tanto in tanto e senza più ombrellini nel bicchiere finché una sera l'aiuto barman, solo dietro il banco, lo aveva avvertito che Aldo il Barman era andato in pensione e tutto era finito.

Per cambiare indirizzo ai suoi pensieri si era messo a pensare se aspettare che i turisti rientrassero in albergo o andarsene prima e raggiungere il suo appartamento con alta vista sul Tevere dove viveva da solo dopo il divorzio da una seconda moglie. Gli piaceva il suo appartamento. Lo aveva restaurato di persona come avrebbe restaurato un fortilizio. Preferendo alla corrente tumultuosa dei torrenti quella più vasta e tranquilla del fiume che dalla sua finestra vedeva andare inesorabile verso la sua foce. Si passò le dita della mano sulla camicia lungo Quindici per Cento, pensando al fiume che scorreva verso la sua foce. Ma non aveva voglia di andarsene. Qualcos’altro da fare, prima. E era stato a quel punto che la voce, improvvisamente amichevole e quasi solidale come poteva succedere da tre mesi a quella parte, era tornata a farsi sentire. Come se anche lei non avesse voglia di andarsene.

“Qualche classifica?”

“E quale”, disse lui con una durezza immotivata.

“Il viaggio più eccitante? Il tuo progetto migliore? I dieci architetti più grandi? Sarebbero state buone classifiche ma non aveva risposto. Un forte senso di vuoto, dopo tutto quell'infuriare di ricordi da cui era appena uscito. Senso di vuoto, voglia di non muoversi, voglia di fumare e di un Martini, lì su quegli sgabelli. Niente altro. Quello alla fine il risultato dei passi ovattati da cui si era lasciato assaltare.

Poi improvvisamente e come avendo fatto i conti con qualsiasi fantasma – non era vero ma non poteva farci niente – si era ritrovato a sogghignare. A farglielo fare, l'immagine dell'asceta vegetariano in camice bianco che lo guardava mentre si metteva la busta del referto su Quindici per Cento nella tasca della giacca senza neanche guardarlo. “Beh, ripensandoci William Holden e Robert Ryan non avrebbero potuto fare di meglio”, si era ritrovato a dirsi sorridendo ma anche con un certo orgoglio.

“E poi cautele non vuol dire proibizioni” disse poi contando sul suo essere fortunato. “L'italiano è italiano, fino a prova contraria. E poi il problema non sarebbe un Martini ma farmelo fare qui”, aggiunse mettendosi a pensare a quello che gli piaceva dei Martini. “Il loro stare freddi e limpidi e rigidi sul loro stelo a venti centimetri sopra il banco. Tra la terra e il cielo. Come gelidi calici sull'altare” disse pensando che oltre che il ponte di comando di una nave un banco di bar poteva essere anche un altare. “Usciti dalla mescola puri e da non contaminare neanche con la scorza di limone”, si disse. “Solo strizzargliela sopra. Delicatamente. Con due dita. Come una benedizione per dargli in superficie uno leggero strato oleoso e profumato. Una estrema unzione. E comunque da affrontare come una comunione”. Sogghignò. “Sì, il Martini è ecclesiastico” sentenziò. “Per lo meno bevuto da soli. Mentre in due fa affrontare i torrenti”.

E allora, avendo parlato di torrenti e sentendo i passi ovattati tornare a avvicinarsi ma non temendoli più, aveva fatto scorrere lo sguardo sul banco deserto sentendolo un po’ come un fronte disertato per una ferita di guerra e dove comunque era tornato. “Dopo essere stato aperto e ricucito da uno stronzo asceta” aggiunse. Poi si era guardato intorno nell’albergo deserto. “Sì, va bene anche qui” disse “anche a costo di dargli io le direttive”, concluse a proposito del ragazzotto foruncoloso con la giacca macchiata.

Aveva dovuto ancora battere il palmo sul campanello di bronzo per vederlo ricomparire. Con una sorpresa. Tolta la giacca macchiata e indossatane una color crema e debitamente pulita e stirata, i capelli lisci, lucidi e ben spartiti da una riga al centro, dava l'idea di aver passato tutto il tempo della sua assenza nel retro a stirare la giacca e mettersi in ordine prima di fare la sua apparizione in veste ufficiale dietro il banco. Era rimasto a osservarlo con attenzione. In qualche modo faceva pensare a un giovane capitano conradiano – era un uomo che leggeva – sul ponte della nave del suo primo comando. A mostrare coraggiosamente i foruncoli. Ma da quanto non vedeva più un ragazzo coi foruncoli? Doveva essere di una generazione sbagliata. Poi, con mani pulite e unghie curate, il ragazzotto aveva accolto con una certa baldanza, la sua richiesta. Per poi voltarsi verso lo scaffale e prendere una bottiglia di Gordon's, ma sì perché no, ma non il manuale illustrato dei cocktail e poi tornando al banco per mettersi al lavoro con una sorta di baldanza anche se proprio la sua baldanza faceva capire la poca dimestichezza con quello che gli era stato chiesto. Ma affrontando lo stesso l'impresa con qualcosa di giovane e coraggioso che agganciava lo sguardo costringendolo a seguire i suoi movimenti.

“Beh, non tutto è perduto, alla fine” si trovò a pensare guardandolo mentre lavorava con studiata disinvoltura con il mixer. “Capace che ha anche una sigaretta come i veri barman” si disse con una improvvisa speranza. E subito dopo l'aveva chiesto.

Un rapido e sicuro annuire del capo da parte del ragazzotto, mentre mescolava nel mixer. Interrompendosi giusto il tempo per tirare fuori alla tasca della giacca ben stirata e con un movimento da apprendista prestigiatore un portasigarette d'argento aperto su cinque Marlboro trattenute da una cinghietta d’argento.

“Devo uscire?” aveva chiesto prendendola. Il ragazzotto aveva scosso il capo. “Non c'è ancora nessuno” aveva detto tranquillamente complice indicando col capo l'atrio deserto e offrendogli un accendino acceso e anche quello d'argento. “Non così in fretta, la prima dopo tre mesi”, aveva detto la voce, quieta e solidale. Allora anche lui aveva scosso il capo e il ragazzotto aveva spento l'accendino lasciandolo a sua disposizione sul banco. Aveva tenuto la sigaretta tra le dita sentendone la morbidità e la leggerezza. Ma soprattutto considerando le sue dimensioni perfette. “Difficile trovare qualcosa di così bianco e perfetto in tutto il pianeta” si disse, “i quadri di Fontana, forse”, disse. “Certo ne ammazzerà molti” aggiunse ancora sorridendo, “ma tutti quelli, di gran lunga di più, che aiuta a vivere?” Aveva avuto un moto di solidarietà e di pietà per tutti i fumatori del pianeta. E, per un momento, ancora l'immagine di Maura Denti di Volpe – finiti i ricordi era tornato a non chiamarla più solo col nome – che se ne accendeva una. “Il più grande amore della mia vita”, la frase di lei dopo una piccola e nervosa lite tra loro e aspirando con protervia e a fondo il fumo.

Allora, messa la sigaretta tra le labbra,  preso l'accendino d'argento dal banco l'aveva accesa. Socchiudendo gli occhi e aspirando anche a lui a fondo. In segno di solidarietà con Maura Denti di Volpe. Ovunque fosse. Sentendo il non dimenticato calore dolciastro del fumo. Subito, in mezzo al petto, il colpo di una soffice fucilata ma se lo era aspettato e non gli aveva dato peso. Riaprendo gli occhi e tornando a guardare il ragazzotto che, versata la mescola nel bicchiere ghiacciato, vi strizzava sopra la scorza di limone. “Beh, si, forse non tutto è ancora perduto” era tornato a ripetersi guardandolo lavorare concentrato nel suo compito. Un impulso di fermarlo quando aveva capito che, dopo averla strizzata, avrebbe lasciato cadere la scorza nel bicchiere. Ma non aveva detto niente. Poi dopo averla in effetti lasciata cadere nella mescola, gli aveva spinto con rispetto il bicchiere davanti. Per poi allontanarsi. Restando in piedi nell’angolo più lontano del banco. In professionale e brufolosa attesa.

Sì, non tutto era perduto, forse. Allora era rimasto a guardare il bicchiere svettare gelido e limpido e immobile venti centimetri sopra il banco tra la terra e il cielo. “Un calice, altro che storie”, aveva detto piano a se stesso. Poi aveva avvicinato con cautela le dita al bicchiere.

“Senza ghiaccio”, le sue parole di uomo fortunato prima di prenderlo e sollevarlo piano dal banco tenendolo per lo stelo. Il limpido liquido aveva avuto un leggero limpido tremore e aveva aspettato che tornasse limpido e immobile. Poi, tenendolo fermo per non farlo muovere di nuovo, aveva accostato le labbra all'orlo gelido. Poi aveva fatto un piccolo sorso. Poi un secondo. Un po' più sostenuto. Poi, sentendo già un lieve beccheggio, aveva socchiuso gli occhi. Per gustarlo meglio. Aveva continuato a tenere gli occhi socchiusi anche al terzo sorso.

Sì, ne era certo. Non ricordava quando mai ne aveva bevuto uno così buono.

Dio non canta, Mina

DIO NON CANTA, di Mina

 

Dio non canta. Forse non ha mai cantato: si vede che non gli serviva. Ha dato il canto a tutti gli elementi che popolano questo mondo e che adesso si danno da fare per tenerlo vivo. Il rumore dell’esistenza è canto. Canta l’acqua, il vento, le fronde degli alberi, le pietre, cantano gli animali, canta l’uomo. Il canto è un grido, un ululato a gola aperta. Sfiora e urta e sfonda e spacca e libera e imprigiona. Non gli serve di essere ascoltato per avere valore. E’ una liberazione. Una manifestazione della verità. E non ha bisogno di spettatori.

Mina 

Hammet, mai mollare la presa, Roberto Barbolini

        Per capire Dashiell Hammett si può cominciare dalla fine, con un blow-up dell’immagine che ce lo rimanda, ormai sfibrato dai mali e da uno stallo creativo quasi trentennale, mentre se ne sta asserragliato in campagna tra vecchie macchine per scrivere, leggendo Friedrich Engels e il Dracula  di Bram Stoker alla tartaruga Willy. Vero o falso che sia, l’aneddoto è rivelatore. La lunga fedeltà dello scrittore a se stesso, alla vitalità delle proprie contraddizioni, trasforma questa trovata sarcastica del vecchio dandy dell’hardboiled, da troppo tempo avviato al declino, in un gesto critico molto lucido. Perché il creatore di Poisonville, la Città Avvelenata del romanzo Raccolto rosso (Red Harvest, 1929), ha fondato la dignità letteraria d’un genere proprio mescolando un’agra e disillusa lettura materialistica della società -nelle sue violente pulsioni fondamentali di sesso, di denaro, di potere e di morte - alle emozioni a forti tinte provenienti dalla narrativa sensazionale derivata dal romanzo gotico.

Era stato addirittura Voltaire, del resto, in pieno secolo dei Lumi, a saldare le figure del Vampiro e del Capitalista, ironizzando sulle infestazioni di Non-Morti nell’Europa orientale. Come mai, si chiedeva il filosofo, quei nosferatu di provincia non frequentavano Londra o Parigi, patrie ideali dei veri succhiasangue, ossia speculatori e strozzini?

Nel connubio fra magnati corrotti, poliziotti venduti e gangster rilucidati da gente perbene, Hammett non ha fatto che riproporre il quesito di Voltaire sullo scenario dell’America degli Anni Venti, all’epoca del proibizionismo e della Grande Depressione, fornendogli una risposta di radicale pessimismo. Non a caso il critico Steven Marcus ha paragonato la Poisonville hammettiana al Leviathan di Thomas Hobbes, in quanto mondo in perenne assetto di guerra, «una guerra universale, che vede tutti contro tutti.» (1)

Alla tartaruga Willy, prevedibilmente, tanto Dracula quanto Engels importavano poco. Eppure la sua presenza sulla scena di quelle solitarie, forse un po’ allucinatorie letture di Hammett non è priva di significato. Essa rimanda, in parodia domestica, a una dimensione che viene prima della storia e della logica: un’era sauriana dove il cozzare delle corazze, l’aprirsi delle fauci non hanno giustificazioni razionali o spiegazioni sociologiche: esprimono invece la pura violenza dello stato di natura. Implacabile nel cogliere attraverso le sue dure storie metropolitane quello che una volta i filosofi chiamavano lo Spirito del Tempo -e nel suo caso si tratta d’uno Spirito  decisamente alcolico- Hammett lo è altrettanto nel far riaffiorare, tra i lampi delle revolverate e i latrati delle mitragliatrici, quell’ elemento primordiale, etologico, che rimanda alla radice di ogni conflitto: la lotta fra il cacciatore e la sua preda. Attraverso la complice disponibilità del sinonimo, il profilo tagliente del detective dall’occhio color canna di fucile s’imbestia nell’immagine dello sleuth, il  segugio che freme dietro l’usta della lepre.

L’«istinto della caccia» viene apertamente rivendicato da Sam Spade nel finale di Il falco maltese  (The Maltese Falcon, 1930) davanti all’estremo tentativo di seduzione da parte di Brigid O’Shaughnessy, che spera così di evitare la forca: «aspettarsi da me che acciuffi i criminali per poi lasciarli liberi è come chiedere a un cane d’acchiappare una lepre e di lasciarla poi andare.» (2)

La crudezza dell’immagine venatoria non deve trarre in inganno: le prede degli investigatori hammettiani non sono certo pavide lepri. Fin dai primi racconti del periodo di «Black Mask», Hammett è perfettamente consapevole che, nella giungla d’asfalto della società contemporanea, i ruoli di chi caccia e di chi è cacciato possono invertirsi con molta più facilità di quanto accada in natura. E lo testimonia ricorrendo spesso a efficacissimi rimandi zoomorfi, come in questa descrizione di una delle sue indimenticabili Dark Lady, la principessa Zhukovski di Attacco a Couffignal (The Gutting of Couffignal ), del 1925: «Il suo corpo, forte e slanciato, si trasformò nel corpo sottile di un animale acquattato; il volto bianco le si trasformò nel volto d’un animale infuriato. Una mano -zampa ormai- corse alla tasca rigonfia.»(3)

Poi l’animale selvatico svanisce di colpo e, come in una fiaba, la principessa riprende il suo aspetto, altero e seduttivo. Ma l’anonimo Continental Op, basso e grasso quanto la bella russa assassina è alta e slanciata, non si lascia prendere per il naso e ribatte con tutta la durezza e il cinismo che dispiegherà in Raccolto rosso: «Pensa che io sono un uomo e lei è una donna. Si sbaglia: io sono un cacciatore e lei qualcosa che mi è passata sotto al naso. In tutto questo non c’è niente di umano. È come aspettarsi che un cane si metta a scherzare e a fare le moine con la volpe che ha catturata.»(4)

Una metamorfosi animalesca simile a quella della principessa Zhukovski si verifica anche nella signora Leggett della Maledizione dei Dain (The Dain Curse, 1929), quando l’Op la smaschera come assassina in una delle tante soluzioni provvisorie di questo romanzo dalla trama complicatissima, che Hammett considerava -forse non a torto- la sua silly story: «La signora Leggett si erse in tutta la sua altezza. Sorrise con i suoi denti robusti e giallastri mostrandoli dal primo all’ultimo (…) La casalinga (…) era improvvisamente svanita. Al suo posto c’era una donna bionda il cui corpo era arrotondato non dall’abbondanza di quella mezza età ben curata e soddisfatta, ma dai muscoli torniti e morbidamente rivestiti di un felino predatore.» (5)

Alle prese con le belve in incognito della giungla urbana, l’Op si riconosce nella figura di un segugio perennemente in stato di allerta. La soluzione dei suoi casi può sbucare dal punto meno prevedibile dell’orizzonte, come la selvaggina durante la battuta. Per questo lo sleuth hammettiano, seppure più cruento e crudele di Sherlock Holmes, ci sembra filosoficamente tanto più moderno, un campione della fuzzy logic che rovista come può nel caos sociale e ontologico del mondo, sorretto solo dalla fede nella sua professionalità. E dall’istinto più antico: quello di chi fiuta le tracce della preda. Ma attenzione: il cacciatore possiede abilità e tecnica, mai certezze. Migrazioni, morie, scarsità di selvaggina o presenza di altri predatori, pericolosi anche per lui, rendono la sua vita rischiosa e sempre in bilico sull’orlo della penuria.

Nel suo smagliante Discorso sulla caccia, José Ortega y Gasset  ci fa comprendere «quello che anche nell’uomo c’è in fondo di umile cane, perduto in un’esistenza che non domina e sballottato di qua e di là dal più impenetrabile Destino.» (6)

Non c’è modo migliore di descrivere la visione del mondo che Hammett ha espresso attraverso i suoi antieroi. Da un punto di vista antropologico, essi sono gli ultimi guerrieri nomadi nel caos stanziale della metropoli moderna. Sotto il profilo filosofico, sono invece dei nichilisti post-nicciani, che con la ruvida scorza del cinismo si difendono dall’insensatezza dell’esistenza aderendo a un’etica forse minimale, ma di perfetta funzionalità: quella del lavoro ben fatto. Anche il detective, come lo scrittore, è un artigiano che fida solo nel proprio fiuto e nella propria professionalità per pedinare una verità sfuggente. Nel caso di Hammett non si tratta di una trita similitudine letteraria. La sua esperienza giovanile presso la Pinkerton, la più celebre agenzia investigativa americana, non gli ha fornito solo spunti, competenze e personaggi, ma anche un bagaglio tecnico assai più preciso di quello posseduto dagli altri scrittori di romanzi polizieschi.  A questo proposito, From the Memoirs  of a  Private Detective  (uscito su «The Smart Set» nel 1923) e le Suggestions to Detective Story Writers,apparse tra l’aprile e l’ottobre del 1930 sulla «New York Evening Post», sono testi sintomatici. Qui davvero Hammett è l’umile segugio che, con stile stringatissimo e tutto matter of fact,  può permettersi di dar lezione agli improvvisati cacciatori della domenica dissertando su silenziatori e Colt 45, sui poteri d’uno sceriffo o sullo stato delle pupille d’un drogato. Ma soprattuto sull’abbiccì del mestiere, il pedinamento: «Un investigatore addestrato che sta pedinando qualcuno, di solito, non balza dal vano d’una porta all’altro e non si nasconde dietro alberi e pali. Sa che non c’è niente di male se il soggetto lo intravede qua e là.» (7)

Il precetto viene ribadito nel racconto Labirinto d’inganni  (Zigzags of Treachery, 1924), dove Hammett elenca normativamente le regole precise del pedinamento: «Tenersi dietro al soggetto il più possibile, non cercare mai di nascondersi alla sua vista, comportarsi in modo naturale... e non incontrare mai il suo sguardo.» (8)

Qui vale forse la pena di ricordare che il modello reale del Continental Op fu il capo dell’ufficio di Baltimora dell’Agenzia Pinkerton, un uomo piccolo e grasso che si chiamava James Wright, il quale aveva insegnato al principiante Hammett i rudimenti dell’arte di pedinare. Un verbo che, invece del richiamo pedestre, assume nell’equivalente inglese una sfumatura più suggestiva: to shadow rimanda infatti al nostro «seguire come un’ombra». E se da un lato risuonano all’orecchio gli echi romantici del Peter Schlemihl  di Adalbert von Chamisso, è soprattutto a The Thin Man, l’Uomo ombra, che automaticamente si pensa. Ossia al romanzo del 1934 che, opzionato da Hollywood ancor prima dell’uscita, segnò nello stesso tempo la fine della carriera narrativa di Hammett e l’inizio della fortunata serie cinematografica con William Powell e Mirna Loy nei panni di Nick e Nora Charles. Vale a dire, il deciso passaggio dall’hardboiled alla commedia sofisticata, del resto già implicito nello stile spiritoso e soft adottato da Hammett, così diverso dalle dure storie di Sam Spade e dell’Op.

Con una di quelle estensioni metonimiche per cui Frankenstein è diventato col tempo il nome del mostro anziché quello del suo creatore, il cinema ha regalato l’appellativo di Uomo Ombra allo svagato e beone Nick Charles, marito d’una bella ereditiera e ormai detective a tempo perso. Ma il thin man del romanzo -e del film omonimo- è il bislacco inventore Wynant, che scompare e viene a lungo sospettato di essere un assassino, quando invece è una vittima e un capro espiatorio. Sotto questo profilo L’uomo ombra  è innanzitutto un’allusione intrisa di humour nero alla condizione cadaverica di Wynant, che con  un rimando ai  fratelli Cohen potremmo definire «l’uomo che non c’era». Ma il titolo è anche uno di quei richiami, così spesso ricorrenti in Hammett, alla sua condizione di tubercolotico, insidiato dalla magrezza fino a diventare appunto un «uomo trasparente».

Hammett aveva contratto la tisi durante la prima guerra mondiale, quand’era arruolato nel corpo medico di stanza a Baltimora, e fu costretto a restare a lungo ricoverato in ospedale. Da allora in poi, l’esistenza dello scrittore sarebbe stata una continua altalena fra periodi di ritrovata salute e crisi ricorrenti, aggravate dalla vita sregolata e dalla spiccata tendenza all’alcolismo. In ospedale conobbe Josephine Annis Dolan, che divenne sua moglie e gli diede due figlie, Jo e Mary. Ma proprio la salute precaria, il rischio di contagio dovuto alla tubercolosi e l’ombra sempre incombente della morte finirono per allontanarlo dalla famiglia e decisero il suo destino, trasformandolo da malconcio ex detective in scrittore.

Il padre dei duri, l’«urbanista del crimine», che ha saputo raccontare in modo impareggiabile la realtà violenta della Grande Poisonville americana, ha certo appreso dal periodo trascorso alla Pinkerton l’arte del pedinamento e la precisione nel descrivere una pistola. Deve però alla malattia quel decisivo «effetto Sheherazade» che obbliga a narrare per non morire. E anche l’idea, capitale per la sua poetica, della sostanziale insensatezza della vita, retta soltanto dal gioco cieco del caso.

C’è un aspetto poco noto, nella produzione giovanile di Hammett, sul quale vale la pena di soffermarsi. Esso affiora in certe «storie ospedaliere» dove il protagonista, connotato in genere come semplice io narrante o ironicamente col nome di «Slim» («magro»), lotta contro l’universo concentrazionario che amministra il regno della malattia. Sono vicende più intime e autobiograficamente sofferte, databili all’inizio degli anni Venti, che si situano accanto alle imprese inaugurali del Continental Op o del suo predecessore Waldron Honeywell, il primo detective hammettiano. In esse, come ha osservato la sua biografa Diane Johnson, lo scrittore ha cercato di raccontare che cosa significava essere un ex soldato costretto in ospedale, giovane, malato, senza speranza.

Ne è un esempio sobrio e laconico, degno dell’Hammett maggiore, il racconto Giornata libera (Holiday), del 1923. È la storia di una giornata di libera uscita dall’ospedale di San Diego, che il protagonista Paul trascorre a Tijuana, la prima cittadina messicana oltre il confine, in cerca di piccole estasi a buon mercato: il brivido del gioco, l’alcol, il sesso in vendita. L’illusorio incontro con una ragazza dai capelli rossi, che per mestiere adesca al beveraggio, non conduce ad alcuna redenzione. Per Paul non c’è via di scampo al rientro in ospedale, in un’atmosfera gelida e nebbiosa che lo fa tossire quasi in continuazione.

La malattia dei polmoni che perseguitò Hammett per tutta la vita non è un particolare meramente aneddotico, esterno alla sua opera. Non a caso, figure di tisici ricorrono con frequenza sintomatica nei romanzi e nei racconti. Lo scrittore vi si rispecchia, a volte, con una specie di compiacimento  autolesionistico. Esemplare in questo senso è il personaggio di Dan Rolff in Raccolto rosso. Succube e innamorato senza speranza di Dinah Brand, Dan si lascia umiliare e persino schiaffeggiare da lei, al punto che il Continental Op finirà per menarlo «da uomo a uomo» proprio per ridargli un po’di dignità davanti ai suoi stessi occhi.

Alla base del nichilismo hammettiano c’è, in termini mitologici, l’immedicabile ferita di Filottete. Perché nulla più della malattia può corroborare l’idea-cardine della poetica di Hammett: quella dell’infinita insensatezza che domina l’esistenza umana. L’assoluta casualità con cui colpisce, somministrando dolore e sofferenza in modo anomico, privo di qualsiasi rapporto con la colpa o il merito individuali, fa della malattia un fenomeno totalmente «dis-etico». Non un  Male che giunge come punizione per un comportamento malvagio o criminoso, ma un puro gioco del  destino. E qui entra in crisi quell’«etica protestante» che in un celebre saggio Max Weber, legandola allo spirito del capitalismo, ha descritto come improntata all’ideale del successo mondano, in quanto prova della benevolenza divina.

Non va dimenticato, del resto, che Hammett era nato in una famiglia cattolica -e per il Cattolicesimo il disegno divino è imperscrutabile, paradossale, inaccessibile alla mente del singolo: «Credo quia absurdum». Per questo Steven Marcus è costretto a parlare, nel miglior saggio che io conosca sul Continental Op, di «un caso speciale di etica protestante». Il cielo di Hammett non ha ricompense da fornire ai mortali. La religione desacralizzata dell’ Op, che ha per «ecclesia» l’Agenzia Continental e per impenetrabile divinità il cinico Vecchio che le sta a capo, soavemente privo d’ogni sentimento umano, si risolve infine nella dura e cruda ascesi del lavoro ben fatto. Questa vocazione a operare, a essere pura funzionalità, senza che ciò implichi un’elezione divina, è espressa chiaramente nell’anonimo appellativo di Operator. Paradossalmente, proprio perché le opere non bastano a garantire la salvezza, l’Agente senza nome  è così legato al suo mestiere, fa il detective «non soltanto per guadagnarsi da vivere, ma anche, e soprattutto, per divertirsi e per esercitare le sue capacità. Il lavoro è fine a se stesso.» (9) 

Stranamente, Marcus non mette in relazione questa vocazione ludica dell’Op con la radicale scepsi metafisica della storia di Flitcraft, raccontata da Sam Spade nel Falco maltese. Eppure è stato proprio lo studioso americano a scorgere per primo un fulcro importante della visione del mondo hammettiana in questa  parabola d’un Rip Van Winkle riveduto e corretto, di cui Spade si serve per spiegare a Brigid O’Shaughnessy il proprio concetto della vita.

Un bel giorno Flitcraft, speculatore immobiliare di Tacoma, era sparito di casa. Cinque anni dopo, Spade lo rintraccia a Spokane, dove s’è rifatto una vita e una famiglia identiche a quelle che si era lasciato alle spalle. Spiegazione: mentre camminava per la strada, dall’alto era precipitata una trave, sfiorandolo: «aveva avuto  come l’impressione che all’improvviso qualcuno avesse sollevato il cofano e gli avesse mostrato il motore della sua vita (... ) Aveva cioè capito che gli uomini muoiono a caso e vivono solo quando la fortuna, cieca, li risparmia.»(10) Per questo, Flitcraft aveva deciso di rispondere alla caduta della trave cambiando in maniera radicale ma altrettanto casuale la propria esistenza, ed era sparito nel nulla. Il commento di Spade è capitale: «Non credo si fosse reso conto d’essere montato sullo stessissimo treno di vita dal quale era saltato giù a Tacoma. Ma dopotutto è il particolare che m’è piaciuto sin dagli inizi. S’era adattato alla caduta delle travi e quando di queste non ne erano più cadute s’era subito adattato alla mancanza di caduta.» 11)

Ecco: la trave di Flitcraft, l’evento imprevedibile che mette a nudo il meccanismo puramente casuale dell’esistenza, è per Hammett la malattia. La tubercolosi diventa la molla della scrittura. È convinto che gli resti poco da vivere. Quando si renderà conto che la morte, come la trave di Flitcraft, l’ha soltanto sfiorato, sarà ormai uno scrittore famoso. Ma non è escluso che proprio dall’improvviso allentarsi di una profonda tensione interiore -la reazione alla «caduta della trave» che ha prodotto lo straordinario fervore degli anni Venti e dei primi anni Trenta- si inneschi quel progressivo svuotamento di energia creativa che condurrà Hammett a un lungo e pressoché definitivo silenzio letterario, interrotto solo da tentativi -come il romanzo Tulip- mai condotti a termine.

La storia di Flitcraft non costituisce un esempio unico. L’interpolazione di una vicenda apparentemente incongrua, come paradossale luogo in cui sono custoditi il senso e la «morale della favola» della trama principale, è una particolarità di Hammett romanziere sulla quale vale la pena di soffermarsi. Questo procedimento fintamente divagatorio, che spezza il flusso della narrazione, costituisce ad esempio un vero e proprio «a parte» stilistico nella storia di Alfred G. Packer, il mangiatore di uomini di cui si parla nell’Uomo ombra. Dove si apprende, da un libro dedicato ai grandi casi criminali d’America, che Packer aveva tagliato a strisce e divorato cinque compagni sulle montagne del Colorado, sviluppando un autentico gusto per la carne umana, «soprattutto le parti attorno alla mammella.»(12)

Anche nel suo romanzo più soft, fra una battuta e una bevuta di Nick e Nora, Hammett non rinuncia a far affiorare il ghigno rappreso della belva che affonda i denti nella preda. Dietro la vernice salottiera -sembra dirci lo scrittore- dietro le buone maniere e le convenzioni sociali, non c’è alcuna struttura razionale del mondo che possa davvero dominare la violenza dello stato di natura.

Per questo Spade & C., pur facendo funzionare il cervello a pieno regime, non s’affidano alla logica imbalsamata del giallo classico. Hammett si guarda bene dal costruire le sue trame babeliche rispettando le Venti regole per chi scrive romanzi polizieschi teorizzate da S.S.Van Dine, il creatore dell’esteta Philo Vance, che Raymond Chandler considerava il detective più pomposo e balordo dell’intera letteratura poliziesca. Van Dine, un critico d’arte americano che si chiamava in realtà Willard Huntington Wright, rappresentava in  effetti tutto ciò che gli scrittori hardboiled non volevano essere. Hammett se ne prende gioco in una feroce stroncatura di La strana morte del signor Benson (The Benson Murder Case), apparsa sulla «Saturday Review of Literature». Philo Vance, dice, è una vera noia quando parla di arte e di letteratura usando il linguaggio d’una studentessa di high-school che sfoggia le parole straniere apprese dal dizionario. Ma è una delizia quando parla di psicologia criminale: «riesce sempre, e di solito in modo ridicolo, ad avere torto.» (13) 

Il metodo di Sam Spade è certo più sbrigativo delle elucubrazioni di Vance. Ma è anche più interessante dal punto di vista ermeneutico: «La mia maniera di scoprire le cose è di incasinarle in maniera violenta e imprevedibile, appunto.» (14) E l’Op: «Certe volte le strategie funzionano (...) E certe altre volte quello che funziona è rimestare nel calderone... se si è duri abbastanza da sopravvivere, e capaci di tenere gli occhi aperti per vedere quello che si deve vedere al momento giusto.» (15)

A differenza degli investigatori classici, i «duri» hammettiani non credono che la realtà sia riconducibile ai principi di una logica ordinatrice. Solo rimestando nel fango, sfruttando al massimo il caos e l’entropia, l’Op, Spade e gli altri possono trionfare provvisoriamente sull’infinita insensatezza del tutto. 

Da pessimista radicale, Hammett è convinto che il motore vero della storia sia l’eterogenesi dei fini, principio secondo cui le azioni umane possono portare al conseguimento di esiti assai diversi da quelli prefissati. Ma i suoi detective vanno anche oltre. E trasformano questa scepsi negativa in una dote ermeneutica che non sarebbe dispiaciuta a Robert K. Merton, il teorico della serendipità. Nella definizione odierna del Dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro il termine, ispirato a una novella orientaleggiante di Horace Walpole, sta a indicare la «capacità di cogliere e interpretare correttamente un fatto rilevante che si presenti in modo inatteso e casuale nel corso di un’indagine scientifica diversamente orientata.» Non è questa una buona descrizione dell’atteggiamento degli antieroi hammettiani in perenne allerta, quasi una trasposizione teorica del loro istinto della caccia?

Col nostro senno di posteri, ci sembra di poter leggere la parabola di Hammett come un percorso di straordinaria lucidità. La realtà dev’essere stata molto più tortuosa e sofferta. Le «fiches» messe in gioco sull’insensata roulette della vita, dall’esperienza presso la Pinkerton a quella fondamentale della malattia, dall’alcolismo all’intricata situazione sentimentale, contribuirono certo ad alzare la posta della scommessa assoluta di questo autodidatta della letteratura, che in pochi anni divenne il maestro riconosciuto d’un nuovo genere di narrativa popolare. Hammett era un lettore onnivoro, capace di mescolare i pulp con Henry James, Flaubert con le saghe islandesi. Persino il precetto capitale della scuola dei duri -«La frase migliore? La più corta»- l’aveva trovato in Anatole France.

Secondo una leggenda di lungo corso, avallata ancora da Mario Monti nella prefazione a Tutto Dashiell Hammett, la raccolta completa dei romanzi pubblicata da Longanesi nel 1962, Hammett sarebbe stato l’esatto contrario di Chandler: scriveva solo per lucro e, quando credette di aver fatto soldi a sufficienza, smise. Mi sembra un  modo sbrigativo per liquidare il lungo silenzio letterario dello scrittore che aveva affascinato Gide e Hemingway, e che lo stesso Chandler -il quale non aveva mai fatto mistero di ambire all’Olimpo della letteratura alta- considerava suo maestro.

La realtà è molto diversa. Ed è comprensibile solo se si comincia ad accettare il fatto che Hammett, ancor prima d’un capofila dell’hardboiled, è uno scrittore del sublime nell’epoca della sua impossibilità. Proprio la formazione da irregolare, affascinato dalla letteratura highbrow, lo portava a coltivare un’idea elevata della narrativa. La sua insofferenza per il giallo «ben fatto», alla Van Dine, ne è  una conferma. Hammett aveva una concezione sperimentale del poliziesco, come di un genere in continua evoluzione. E il suo «lungo addio» di scrittore ridottosi praticamente al silenzio, dopo una stagione smagliante durata non più di una dozzina d’anni, non pare tanto il frutto dell’appagamento, quanto dello scacco rispetto all’altezza dei propri obiettivi. Basta leggersi che cosa scriveva alla moglie del suo editore, Blanche Knopf, in una lettera del 20 marzo 1928: «Voglio cercare di adattare il metodo dello stream of consciousness, opportunamente modificato, a una detective story, in modo da portare a spasso il lettore assieme al detective e mostrargli ogni cosa così come si offre agli occhi di questo, per condurli insieme alla soluzione, lasciando che essa irrompa in entrambi contemporaneamente.» (16)

E più avanti: «Sono una delle poche persone moderatamente colte -se ancora ne esistono- a prendere la detective story sul serio (...) Prima o poi qualcuno la trasformerà in letteratura (...) e sono abbastanza egocentrico da nutrire qualche speranza in proposito.»(17)

Solo poche righe prima, Hammett ha discusso il titolo del suo primo romanzo, che alla fine sarà Raccolto rosso, dopo che l’editore ha respinto l’originario Poisonville perché l’immagine della città avvelenata è stata giudicata troppo negativa. Intanto, lo scrittore è alle prese con La maledizione dei Dain, un maxiplot così intricato che, non meno della violenza iperbolica dispiegata in Raccolto rosso, sembra far esplodere dall’interno, portandole al parossismo, le convenzioni dell’hardboiled. 

Come si sa, la fase joyciana di Hammett non si è mai verificata. Sam Spade non si è trasformato in un Leopold Bloom con la licenza da detective. Ma solo uno scrittore che credeva fortemente nelle necessità dello stile e non si lasciava condizionare dagli steccati di genere poteva mirare così in alto.

Proprio per la portata sublime della sua scommessa letteraria, però, Hammett aveva bisogno di ancorarsi a una concezione salutarmente artigianale del mestiere. La trovò espressa in «Black Mask», la rivista fondata nel 1920 da H.L. Mencken e dal suo socio George Jean Nathan, che fu la culla dell’hardboiled. Lo interessava soprattutto il lavoro di Carroll John Daly, il cui segugio Race Williams era apparso sulla rivista quattro mesi prima che Hammett cominciasse a collaborarvi. Ma ben presto lo scrittore non ebbe più bisogno di modelli. Nell’ottobre del 1923 uscì il primo racconto con il Continental Op protagonista. E  quel detective bassotto, corpulento, non più giovane -fisicamente un antipode dello stesso Hammett- s’affermò ben presto come il re dei duri, il campione dell’«antigrazioso» nel poliziesco. In una parola, il contrario dell’investigatore porcellanato alla Philo Vance.

Addio ordinati giardinetti inglesi, magioni di campagna dove il cadavere in biblioteca innesca astratte partite di cluedo e la soluzione del caso è soltanto uno sport intellettuale, l’equivalente di una sfida a cricket prima che il maggiordomo venga ad avvisare, con deferenza, che il pranzo è servito...

Quando, nel 1926, alla direzione di «Black Mask»arriva il capitano Joseph T. Shaw, ex bayonet instructor dal carattere tosto, il gioco è fatto. Shaw vuole personaggi a tre dimensioni, convinto che, in caso contrario, l’azione  narrativa perda di significato. «Io e i miei collaboratori» ricorderà «decidemmo di creare un nuovo genere di racconti polizieschi, diverso da quello inviso al tempo dei Caldei e più recentemente adottato da Gaboriau, Poe, Conan Doyle, e da tutti gli altri, cioè il genere deduttivo tipo parole incrociate o puzzle che, deliberatamente, mancava di ogni valore emotivo umano.» (18)

Guidando con pugno di ferro la rivista per un decennio, l’ex soldato si trasforma in levatrice d’uno stile destinato a fare scuola. Curiosamente, per quel gioco di attrazioni magnetiche fra alto e basso che fanno la vitalità della letteratura e la disperazione delle nomenclature critiche, ad accorgersene per primi saranno, come scrive Mario Monti, «proprio i critici inglesi più raffinati, tra i quali, ad esempio, quella Laura Riding che dirigeva, con l’assistenza del poeta Robert Graves, la rivista “Epilogue”». (19) La laconicità del team di «Black Mask» sembra loro degna del miglior Hemingway. Spetta però al capitano Shaw, «coach» rude ma dal fiuto sicuro, il merito di aver saputo valorizzare il vero campione della squadra, esortando Hammett al romanzo. Lo scrittore viene ben presto considerato il capofila del genere, il miglior autore della nuova detective story americana. Questo ruolo gli è esplicitamente riconosciuto anche dal suo eterno deuteragonista Raymond Chandler, nel saggio La semplice arte del delitto: «Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori (...) Hammett, tuttavia, non ha distrutto il poliziesco classico. E chi potrebbe riuscirci? Il commercio richiede forme commerciabili. Per il realismo occorre troppo talento, troppo studio, troppa consapevolezza.» (20)

Quanto Chandler subisse nei confronti di Hammett quella che Harold Bloom chiama «angoscia dell’influenza», ossia il timore epigonale del confronto con un precursore forte, è testimoniato tanto da questo riconoscimento di primogenitura, come dalla mossa stizzosa con la quale nell’ottobre del 1945, solo un anno dopo La semplice arte del delitto, scrive a Blanche Knopf, confessandosi arcistufo di dover andare in giro sulle spalle di  Hammett e di  James M. Cain come la scimmia di un suonatore d’organetto - e aggiungendo  che c’erano tantissime cose che Hammett non sapeva fare.

Al di là di queste fluttuazioni umorali, una cosa di sicuro avvicinava i due scrittori: l’attenzione per il parlato, condito con lo slang del sottobosco malavitoso. È forse sulla base di questo orecchio comune, rivolto alla lingua di strada, che Chandler spende per Hammett quell’equivoca nozione di «realismo», che bastano le trame iperboliche di romanzi come Raccolto rosso  o La maledizione dei Dain a confutare.

Realista? Dashiell Hammett è piuttosto un visionario dell’ hardboiled e, sulle convenzioni del genere, inventa una specie di epica moderna, bassa, che ha per protagonisti eroi disillusi, rispetto ai quali il Marlowe chandleriano costituisce già una versione romanticizzata. A sgombrare il campo da ogni nozione ingenua di realismo è del resto lo stesso Hammett nel saggio The Advertisement is Literature, pubblicato nell’ottobre del 1926 su «Western Advertising», lo stesso in cui cita il precetto di Anatole France sull’efficacia della frase breve: «Raramente il linguaggio dell’uomo della strada è chiaro o semplice. Se pensate che io esageri, mandate un po’ in giro la vostra dattilografa a origliare con  block-notes e matita. Vi accorgerete che, separata dal gesto e dall’espressione del viso, questa lingua comune non è solo complicata e ripetitiva, ma quasi priva di senso per scarsità di coerenza.» (21)   

Hammett sa benissimo che chiarezza e semplicità richiedono allo scrittore un arduo talento letterario e un alto grado di abilità. Sono effetti che non si ottengono girando col magnetofono per le strade, a registrare la parlata quotidiana, ma attraverso sapienti artifici di distorsione, amplificazione e coloritura della lingua d’uso. Rispetto a Chandler, Hammett ha però il vantaggio di avere fatto davvero il detective, venendo a contatto di persona con l’«underworld» della mala. Solo in questo, forse, consiste quel sovrappiù di realismo che Chandler gli invidia. Il creatore di Philip Marlowe, invece di indagini e pedinamenti, ha alle spalle un passato da piccolo dandy. Ha studiato in Inghilterra e, divenuto scrittore, è ossessionato dalle differenze fra la lingua che s’impara al college e il «parlato» americano. Ci scrive sopra dei saggi. Conserva tutti gli articoli che trattano di tecniche narrative. S’esercita in metafore e possibili titoli di romanzi. Intanto, annota sui suoi taccuini frasi ricalcate sullo slang della prigione di San Quintino, o su quello dei borseggiatori newyorchesi.

Pur partendo da esperienze diversissime, sia Hammett che Chandler si muovono all’interno di una ormai consolidata retorica di genere: l’amaro stil novo dei duri della pulp-fiction. Si tratta di un repertorio di convenzioni, tipologie, tic linguistici e situazioni ricorrenti, un vero e proprio Canone da fagocitare. La letteratura è da sempre una forma di cannibalismo rituale, in cui si mangiano i «precursori forti» e gli avversari temibili per assimilarne le doti. Un vero scrittore somiglia a Sitting Bull che ingoia il cuore del generale Custer dopo averlo sconfitto a Little Big Horn. È un guerriero che la civiltà ha impastoiato, trasformandolo in un vampiro virtuale, un cartaceo succhiasangue che si appropria di spunti e di forme, per riplasmarli a propria immagine e somiglianza.

È sintomatico che il cannibalismo venga tematizzato nell’opera di Hammett come una specie di storia arcaica la quale, riaffiorando da strati di memoria primordiale, smaschera e mima la violenza che percorre come una scarica elettrica la vicenda principale. Non c’è solo il caso di Alfred G.Packer, l’antropofago dell’Uomo ombra, ma anche quello di Leggett nella Maledizione dei Dain: un rispettabile scienziato con un passato da ergastolano all’Isola del Diavolo. Nella confessione trovata accanto al suo corpo dopo il suicidio (che si rivelerà fasullo: in realtà è stato assassinato dalla moglie), Leggett rievoca la fuga via mare dall’isola con un altro forzato, un certo Jacques Labaud, che presto muore di stenti. Qui Hammett suggerisce l’antropofagia in modo reticente, ma proprio per questo efficacissimo: «con Labaud morto» scrive dietro la maschera di Leggett «il cibo fu sufficiente per uno, e io sopravvissi fino a toccare terra nel Golfo Triste.» (22)  Il sospetto che il nutrimento sia costituito dal corpo di Labaud stesso ci fa rabbrividire più di qualsiasi descrizione esplicita.

Ma c’è un livello ulteriore di cannibalismo, ed è roba da Inferno dantesco: qualcosa che sta tra il «fiero pasto»  del conte Ugolino e l’iracondo Filippo Argenti, che «in sé medesmo si volvea co’denti.» L’ autofagia è l’estrema risorsa dello scrittore a corto di spunti, eppure spesso si trasforma in  arma vincente. Philip Durham pubblicò nel 1964 Otto storie inedite di Raymond Chandler, che l’autore non aveva mai voluto ristampare in volume perché le considerava «cannibalizzate» -il termine è proprio suo- in quanto serbatoio di trame, personaggi, materiali narrativi poi rifusi e rielaborati nei romanzi. Anche Hammett non disdegnava rivisitarsi. Racconti come Un uomo chiamato Spade  (A Man Called Spade) e Troppi hanno vissuto (Too Many Have Lived), che è anche il titolo di una sua poesia dedicata a Lillian Hellman, sono infatti riscritture -entambe risalenti al 1932- di storie pubblicate in precedenza su «Black Mask» e destinate nella nuova versione a riviste che pagavano molto meglio.

Si può diventare cannibali per denaro, per mancanza d’ispirazione, oppure per libera scelta gastroestetica. È il caso di Jonathan Latimer (1906-1983), autore di quel piccolo capolavoro che è La dama della Morgue (The Lady in the Morgue). Questo hardboiled del ’35, definito da Alberto Moravia «la più completa collezione di motivi mortuari che sia mai stata allineata nelle pagine di un romanzo» (23), è un cocktail perfettamente dosato di necrofilia e alcolismo, ammorbidito dall’ironia e sostenuto da un’esplicita vocazione parodica che -come ha osservato Luca Conti - si esercita innanzitutto su Il falco maltese di Dashiell Hammett, dal quale ruba brani interi per rimontarli in un contesto irresistibilmente macabro, sotto l’egida numinosa di Edgar Allan Poe.

Nella Dama della Morgue, uno dei cinque romanzi che hanno per protagonista l’investigatore beone William Crane, lo schema hammettiano della città avvelenata cede il posto a una ridda strepitosa dalla morgue al cimitero, all’inseguimento del cadavere scomparso di una bella ragazza dall’identità misteriosa, attorno al quale si scatenano gangster, equivoci musicisti di jazz  -vera e propria colonna sonora del libro- e bambole pericolosissime. A un certo punto, Crane scambia addirittura per whisky dell’ottimo liquido per imbalsamare. Ma guai a prenderlo per un volgare ubriacone: «Crede che beva solo per divertimento? No, mille volte no. Io ho uno scopo» (24) è subito pronto a giurare. Sembra una battuta di Nick Charles -e in effetti L’uomo ombra  è solo dell’anno prima.

Come nella follia di Amleto, c’è del metodo in questa dipsomania portata all’eccesso. Di dodici anni più giovane rispetto al maestro, Latimer appartiene già a una generazione disincantata, che attraverso l’iperbole di cadaveri e bevute comincia a giocare parodisticamente con il genere hardboiled. È ancora Conti a ricordare che nella Vigna di Salomone (Solomon’s Vineyard ), del ‘41, Latimer cannibalizza Raccolto rosso  a partire dalla figura del grasso investigatore privato, Karl Craven: un Continental Op solo un po’ meno anonimo. Ma l’assassinio del suo socio Oke Johnson, quasi ad apertura di libro, rimanda all’uccisione di Miles Archer, il socio di Sam Spade nel Falco maltese. E si potrebbe continuare. A me viene in mente, ad esempio, la somiglianza tra la setta esoterica di Solomon’s Vineyard  e il Tempio del Sacro Graal del mentecatto Joseph Haldorn e di sua moglie Aaronia nella Maledizione dei Dain. Pur essendo un romanzo violento e durissimo, al punto che negli Stati Uniti venne pubblicato con pesanti tagli solo nove anni dopo la sua stesura, La vigna di Salomone, come La dama della Morgue, è frutto d’un talento narrativo consapevolmente epigonale (vi si prende anche in giro «Black Mask»). Latimer ha divorato allegramente Hammett, fagocitandolo come il cinema farà con lui, che dal ‘59 abbandonerà la narrativa per fare solo lo sceneggiatore di film o di serial televisivi.

Un caso più tardivo di «cannibalismo virtuoso» -e virtuosistico- è quello di James Hadley Chase, un inglese che si chiamava in realtà René Brabazon Raymond e per tutta la vita finse di essere uno scrittore americano cresciuto alla scuola di «Black Mask». Gianfranco Manfredi ha chiarito bene come Chase abbia applicato la tecnica del plagio non solo nei confronti di Hammett, ma anche di James M.Cain e persino di William Faulkner: il suo romanzo di esordio Niente orchidee per Miss Blandish (No Orchids for Miss Blandish, 1939) è infatti una specie di versione hardboiled di Santuario.

Ma attenzione: Chase copia scene o particolari irrilevanti, che potrebbe benissimo inventarsi da sé. Il suo è un cannibalismo citatorio, consapevolmente esibito, che testimonia ormai il manierismo dell’hardboiled divenuto convenzione: non ci sono meno Dark Lady nei romanzi di Chase che misteri della «camera chiusa» in quelli di John Dickson Carr, o donne angelicate nella poesia stilnovista.

 La versione hammettiana della Belle Dame Sans Merci viene canonizzata, si trasforma in un tipo fisso che fa da motore delittuoso a decine di trame narrative. Gli uomini che si dannano per le femmine pericolose di Chase sono quasi sempre destinati a una brutta fine. Difficilmente li ritroveremo vivi e vegeti in un romanzo successivo. Non a caso -tranne nei pochi titoli che hanno per protagonista l’investigatore Vic Malloy, capo della Universal Services- Chase sceglie di abbandonare la figura del detective come eroe ricorrente. Non ne ha bisogno: al suo posto è la Dark Lady a garantire la serialità. Sempre uguale e sempre diversa. Impavida seduttrice e insidiosa gattamorta. Finta damigella in pericolo e autentica mantide religiosa.

In questa ondata inflattiva di femmine perverse, il cui nome è Legione, non è difficile scorgere le eredi di Brigid O’Shaughnessy e di Aaronia Haldorn, della principessa Zhukovski e della bellissima Dark Lady dalle molte identità, che mette a dura prova sia la tenacia investigativa, sia l’atarassia emotiva del Continental Op in due racconti del 1924: La casa di Turk Street (The House in Turk Street) e La ragazza dagli occhi d’argento  (The Girl with the Silver Eyes).

«Allora la ragazza sorrise, un sorriso di scherno che mise in mostra le punte acuminate di piccoli denti felini. E quando sorrise la riconobbi!

 Erano stati i suoi capelli e la sua pelle a ingannarmi. L’ultima volta che l’avevo vista -l’ unica volta che l’avessi mai vista- la sua faccia era bianca come il marmo e i suoi capelli erano corti e color del fuoco.» (25)

Solo il balenìo felino, che per un attimo spoglia la sedicente Jeanne Delano (ex Elvira) dagli artifici protettivi dei suoi alias criminosi, consente all’Op di riconoscerla. Attraverso quel riso di scherno, la preda si rivela al cacciatore con un’evidenza che va al di là d’ogni prova scientifica.

Che cosa, nella giungla urbana di Hammett, garantisce l’identità? Non certo il nome anagrafico. Averne molti, e falsi, come la bella assassina, non è molto diverso dal nascondersi nell’anonimato come fa il Continental Op. Neppure le impronte digitali, cardine di ogni identificazione poliziesca, sono sufficienti: in un’altra gran bella storia dell’Op, Dita scivolose (Slippery fingers, 1923), si dimostra infatti come queste possano essere ingegnosamente falsificate.

No: Hammett non ha più fiducia nelle nostre tracce fisiche

-offe indispensabili all’esercizio venatorio della detection- di quanta ne abbia nei nostri nomi, grazie ai quali ci illudiamo di possedere un’identità, oppure di millantarla. Essi non bastano a dire chi siamo. Si portano dentro qualcosa di posticcio, l’idea di un trucco che solo le convenzioni sociali fingono di trasformare in un certificato d’esistenza. Questa precarietà onomastica non riguarda soltanto i criminali: persino Nick Charles, il più snob dei detective hammettiani, non è in fondo chi dice di essere. Si chiama in realtà Charalambides ed è figlio d’un immigrato dalla Grecia. Ovvero  la culla della civiltà occidentale, la patria del Logos e della Tragedia che, mescolandosi nella figura del protodetective Edipo, stanno alle origini di ogni investigazione poliziesca. Ma la Grecia è anche la fucina di molti antichi paradossi, come quello del Cretese che affermava: «Tutti i Cretesi sono mentitori.» Seppure convinti che dica la verità, come possiamo credergli?

Forse per questo i detective hammettiani sono così diffidenti nei confronti dei propri clienti, che spesso si rivelano colpevoli. Talvolta arrivano  a dubitare persino di se stessi, come accade al Continental Op quando, dopo una sbronza di alcol e di laudano, si risveglia al ventunesimo capitolo di Raccolto rosso, intitolato «Il diciassettesimo omicidio», mentre stringe fra le mani un punteruolo da ghiaccio la cui estremità è conficcata nel petto di Dinah Brand, la tough girl avida e fascinosa, che è uno dei personaggi femminili più interessanti mai creati da Hammett. È questo uno snodo cruciale del romanzo. Fin qui, l’Op ha creduto di poter controllare e indirizzare ai propri scopi la grande vendemmia di sangue, il «raccolto rosso» che scuote Poisonville. Ma proprio a Dinah, la sera prima, ha confessato il suo disagio morale nello scoprirsi ormai contagiato dal gusto della carneficina collettiva: «È questa maledetta città. Poisonville come nome è perfetto. Mi ha avvelenato (...) Una pelle dura ricopre quel che resta della mia anima, e dopo vent’anni passati ad affondare le mani nel crimine ho imparato a guardare a ogni sorta di delitto semplicemente come a  quel che mi dà da vivere, come al lavoro di tutti i giorni, la giornata di lavoro. Ma questa soddisfazione nel pianificare la morte di altri non mi viene affatto naturale. Ed è così che mi ha ridotto questo posto.» (26)

È il preludio della crisi. Il passo successivo sarà il dubbio di aver ucciso Dinah Brand mentre era alterato dal cocktail di alcol e droga offertogli dalla ragazza. Un dubbio che uno dei suoi partner investigativi alla Continental, il taciturno ma sagace Dick Foley, farà di tutto per alimentare. Come il suo antenato Edipo, il detective, anche quando sa decifrare gli enigmi di una realtà sfingetica, è cieco riguardo al proprio destino. L’angosciosa indecisione dell’Op sulla sua colpevolezza è la stessa di Hammett che, mentre porta avanti la poderosa e truculenta macchina romanzesca, non ha ancora deciso se l’Op sia o no un assassino. 

   Da questo momento in poi, il romanzo cambia corso. Certo, l’Op continua a tirare le fila del grande repulisti nella Città Avvelenata, come se fosse il pistolero d’un western a venire di Leone o di Peckinpah, un Clint Eastwood basso e grasso venuto a bonificare tra rivoltellate e candelotti di dinamite la cittadina dell’Ovest in mano ai malviventi, grazie alla sua abilità nello scatenare la guerra di tutti contro tutti. Ma è sintomatico che Hammett, nel finale, faccia ricorso al «deus ex machina» della Guardia nazionale, che sottopone Poisonville alla legge marziale riportando definitivamente l’ordine e la legalità. Proprio come un cacciatore di taglie quando arrivano gli sceriffi, l’Op si è tolto di mezzo, rifugiandosi in un albergo di Ogden sotto falso nome, a scrivere un rapporto sulla vicenda che il Vecchio dell’Agenzia troverà immancabilmente insoddisfacente.

Ciò che imprime questa decisa torsione narrativa al primo romanzo di Hammett è, in definitiva, l’idea che nessuno è innocente. Anche il detective può essere colpevole senza saperlo. E se Dinah Brand non ha certo le caratteristiche per giocare qui il ruolo di Giocasta secondo il vecchio schema tragico di Edipo, la reticenza del narratore su quello che potrebbeessere successo fra lei e l’Op la notte prima del delitto aggiunge un ulteriore spessore di significato al senso di colpa del detective. Guai a fare della psicoanalisi a buon mercato, sarebbe lo stesso Nick Charles dell’Uomo ombra  il primo a prenderci in giro: «Non sono uno psicoanalista. Non so niente di traumi infantili. Non me ne importa niente.» (27)

Ma è proprio da spiragli di debolezza come quello dell’Op, così rari negli investigatori hammettiani, che si può partire per capire questo strano mondo di tough guys e dark ladies che, anche quando si seducono a vicenda, sembrano obbedire piuttosto a quello che Friedrich Nietzsche definiva «l’odio mortale tra i sessi.»

Pensiamo alla durezza granitica di Spade, il «satana biondo» dalla mascella appuntita, che l’ironico Latimer giudicava «a pretty deadly serious guy», ossia un tipetto che si prende maledettamente sul serio. Quando, dopo essersela spassata con lei, decide di consegnare Brigid O’Shaughnessy alla polizia, dà prova di un cinismo assoluto: «Ammettiamo però che ti ami. E con questo? Magari il mese prossimo non ti amerei più. M’è già successo altre volte, se pure è durato tanto. E allora? (...) Se invece mando te in galera, be’, mi dispiacerà da morire, passerò qualche paio di nottatacce, ma dopo sarà tutto passato.» (28)

L’Op non gli è da meno, quando ferisce la principessa Zhukovski a una gamba per impedirle la fuga: «-Doveva immaginare che lo avrei fatto!- La mia voce suonò aspra e crudele, come quella d’un estraneo ai miei stessi orecchi. -Non ho forse rubato una gruccia a uno zoppo?-» (29)

A prima vista è difficile scorgere crepe nella tempra di questi ruvidi cacciatori di uomini. Eppure Hammett in persona ci fa intravedere di loro una lettura alquanto sorprendente, stando a quanto riferisce Gertrude Stein nell’Autobiografia di tutti:  «Dissi a Hammett che c’era una cosa imbarazzante (...) Ora nel XX secolo (...) tutti gli uomini scrivono di se stessi, sono sempre se stessi forti o deboli o misteriosi o ardenti o ubriachi o autocontrollati ma sempre se stessi come facevano le donne nel XIX secolo (che descrivevano le donne come se stesse splendide o tristi o eroiche o belle o disperate o gentili e non riuscivano mai a descrivere un altro genere di donna). Ora anche voi fate sempre così, come mai? Lui disse: è semplice. Nel XIX secolo gli uomini avevano fiducia in sé e le donne no, ma nel XX secolo gli uomini non hanno più fiducia in sé, così devono descriversi come voi dite più belli più complicati più tutto quanto e non possono descrivere altri uomini per non perdere la presa su se stessi dato che non hanno alcuna fiducia in sé.» (30)

Che lo voglia o no, qui Hammett ci dà la «glass key»  interpretativa dei suoi antieroi scorbutici, ci fa capire perché quei duri, così radicalmente sfiduciati riguardo al senso della vita, li sentiamo fratelli e simili a noi, anche se non vanno in cerca della nostra simpatia. Essi sono, in definitiva, dei perdenti. Per i detective hammettiani la soluzione del caso non ripristina alcun ordine edenico della società. I loro muscoli, il loro fiuto, l’abilità nel disoccultare i fili di complicate trame criminose, persino la capacità di sedurre certe pupe irresistibili senza esserne sedotti a loro volta, hanno come salario una categoriale solitudine. La stessa del tubercolotico Dashiell che, chiuso in una stanza di Turk Street, nella San Francisco degli anni Venti, dà a queste sue  proiezioni mitiche tutta l’amarezza di chi conosce fino in fondo il male di vivere ma ha deciso, attraverso la disciplina e il lavoro ben fatto della scrittura, di non perdere la presa su se stesso.  

  Se si esclude Sam Spade, gli investigatori privati di Hammett raramente possiedono il fisico del ruolo. L’Op non si fa certo illusioni sul proprio aspetto esteriore, che Dinah Brand gli spiattella in faccia senza peli sulla lingua: «un tipo grasso, di mezza età, duro quanto basta, testardo come un caprone.»(31)  Ned Beaumont, accanito giocatore d’azzardo e detective improvvisato ma inesorabile della Chiave di vetro,  il romanzo che Hammett preferiva, è certo un tipo fascinoso. Ma ha l’aria malsana di chi, pur godendo di scarsa salute, fa una vita di stravizi. Proprio come il suo autore. Quanto ad Alec Rush, protagonista del racconto lungo L’apprendista assassino (First Aide to Murder), viene descritto come un uomo decisamente brutto: «aveva un rozzo testone a pera che partiva largo alla mascella, andando poi a stringersi verso i capelli ispidi tagliati a spazzola che gli sparavano dalla fronte bassa e obliqua. Di incarnato rossiccio, aveva una pellaccia spessa resa ancora meno attraente da generosi accumuli di grasso.»   

Più che un investigatore privato, sembra uno dei «cattivi» dei fumetti di Dick Tracy, sempre nani o cifotici dall’aspetto mostruoso. In effetti, la bruttezza fisica di Rush potrebbe rispecchiare un marciume interiore. Apprendiamo infatti che è stato cacciato dalla polizia per motivi  mai chiariti. Ma non dobbiamo lasciarci ingannare dal pedigree poco pulito. Dietro il suo ghigno da incubo c’è un altro segugio che non molla, non meno determinato di Spade o del Continental Op. Lo dimostra  questo racconto basato su due elementi tipici della narrativa di Hammett: la struttura del pedinamento e l’evidenza, di portata metafisica, che nessuno è mai quello che sembra.

Come un Pirandello dell’hardboiled, lungo l’intero arco della sua opera l’implacabile Dash ha messo in gioco i temi dell’identità, la natura sfuggente del reale, l’intricato rapporto tra verità e finzione. In Notturno (Nightshade), una short-story del ’33, Hammett mostra l’esistenza di una difficoltà ermeneutica persino nel distinguere il bianco dal nero: «Qui non siamo ad Harlem, figliolo» è l’ammonimento del padrone d’un locale al  protagonista Jack Bye, «e se il giudice Warner scopre che la figlia se ne va in giro con te e frequenta il mio locale, può rendere la vita molto dura a tutti e due noi. Io ti voglio bene, ragazzo, ma tu devi metterti in mente che non fa differenza se la tua pelle è molto chiara o se hai frequentato un mucchio di college: sei sempre un negro.» E Jack Bye, di rimando: «Be’ (…) per chi credi voglia passare, per un cinese?» (33)

Circa tre anni prima di questo racconto, Hammett aveva messo mano a una stesura iniziale del romanzo che sarebbe poi diventato L’ uomo ombra. (34)  Ne rimangono dieci capitoli. La prosa è spigolosa, più genere «Black Mask»e meno sophisticated comedy.  Anche qui il tizio scomparso si chiama Wynant, Walter Irving Wynant, ma invece che uno scienziato svitato è uno scrittore mattoide, al quale Hammett presta qualche caratteristica propria: è infatti molto alto, molto magro e parecchio tubercolotico. Rispetto al romanzo del ’34, c’è però una differenza decisiva: non compaiono Nick e Nora. Al loro posto troviamo un segugio dalla pelle scura, il mulatto John Guild, delle Agenzie investigative associate di San Francisco. Si può immaginare cosa sarebbe successo se Hammett avesse condotto a termine questa prima versione. Con un tough guy di colore per protagonista, avremmo avuto forse meno battute di quante ce ne regalino Nick e Nora fra un martini e un egg-nog, ma la storia sarebbe stata decisamente più violenta. Hardboiled, appunto.  Assieme all’Op e ad Alec Rush, Guild costituisce un bel trio di «detective difettosi», fuori dai canoni e privi dell’ appeal che accomuna Sam Spade al Marlowe chandleriano. Potremmo chiamarli il Grasso, il Brutto e il Mulatto.

Invece Levison, il Peloso  protagonista del  racconto omonimo (The Hairy One, 1925), non è un investigatore, ma un avventuriero scorbutico che sembra uscito da una storia di Jack London. Come un Sansone in parodia, quando verrà depilato a viva forza dal geloso moro  Jeffol e dalla vecchia madre di lui perderà tutta la sua boria.

Anche in storie minori come questa, dove non compaiono i prediletti scenari urbani dell’hardboiled, Hammett non si smentisce. Nel suo mondo sembra trionfare, fino all’ipertricosi gorillesca di Levison,  la profezia delle streghe di Macbeth  secondo cui «Bello è il brutto, il brutto è bello.» Questo disordine estetico è omologo al caos etico in cui si muovono i personaggi hammettiani. Il Continental Op è così bravo a indovinare identità e mosse dei delinquenti perché, in fondo, gli somiglia. La sostanziale intercambiabilità fra il cacciatore e la preda viene scandita nei toni asciutti ed esemplari d’una vendetta western in un racconto magistrale come L’uomo che  aveva ucciso Dan Odams (The Man Who  Killed  Dan Odams, 1924), dove un’improvvisa defaillance dell’istinto della caccia rovescia i ruoli tra vittima e carnefice, finché la nemesi giunge imprevedibile. Lo stesso accade in Terrorizzato da una pistola (Afraid of a Gun, 1924). È la storia di Owen Sack, un uomo che ha passato la vita a scappare da tutti quelli che gli puntavano contro un’arma: un po’come se Flitcraft, l’agente immobiliare di Tacoma, si fosse portato addosso fin dall’inizio il terrore che una trave gli cadesse addosso. Quando finalmente il villain di turno gli spara per davvero, ferendolo solo leggermente, Owen Sack si scoprirà libero dalle sue paure e con molti conti da saldare a revolverate. Il duello in cui stende Rip Yust  è puro  western, come lo è  l’ingresso in scena -non a cavallo ma su una Ford- di Steve Threefall nella Città degli incubi (Nightmare Town) del racconto omonimo (35). In quel postaccio maledetto il protagonista arriva sbronzo, dopo aver attraversato il deserto per scommessa. Ben presto s’accorge di essere capitato in una città avvelenata che è già un preludio di Poisonville. In essa tutto è impostura, un paravento creato dal racket degli alcolici, dove non ci si può fidare nemmeno dei ciechi.

In queste tre short-story del 1924, che precedono di cinque anni Raccolto rosso, lo sguardo dello scrittore sull’esistenza è già implacabile. I rimandi a una tradizione che va dal  western di Owen Wister e Bret Harte ai racconti di O. Henry testimonia la consapevolezza di appartenere a una genealogia letteraria ben precisa. Nel bel saggio Mistery Man (36), Margaret Atwood la inserisce in un progetto di autodefinizione linguistica dell’America, che comincia nel 1783 con lo Spelling Book  di Noah Webster, continua con il Natty Bumppo di James Fenimore Cooper e approda trionfalmente al Mark Twain di Huckleberry Finn, con la sua capacità di catturare il tono e la cadenza del vernacolo americano, trasformandolo in letteratura. Un’operazione simile fa Hammett con i polizieschi hardboiled: le sue esplorazioni dello slang criminale non sono solo tocchi di colore, ma corrispondono a qualcosa di nativo, che se ne sta affondato nel ventre molle d’ America -e il bisturi della scrittura ha il compito di riportarlo alla luce.

Semplicità, chiarezza, plausibilità: l’ex detective dell’Agenzia Pinkerton passato alla letteratura sa bene che sono le doti di scrittura più difficili da ottenere. Uno stile che dia l’illusione del «parlato» è in  realtà quanto di più lontano dalla confusione che pervade il linguaggio comune. Ma l’artificio, da solo, non basta. A differenza degli scafatissimi cannibali Latimer e Chase, dietro le slogature slang della sua epica minimale Hammett è -come ha osservato Luigi Baldacci(37)- uno scrittore di contenuti. La sua etica letteraria è fondata su una specie di impassibilità chirurgica, frutto d’una tempra morale a suo modo ascetica. L’ex detective della Pinkerton non era solo uno stylish drunk, un ubriacone pieno di stile, secondo la brillante e feroce definizione di Lillian Hellman. Fu capace di arruolarsi volontario nella Seconda guerra mondiale, nonostante avesse quarantotto anni e la tubercolosi, ma anche di finire in carcere al tempo della caccia alle streghe maccartista, pur di non denunciare membri del Partito comunista al quale si era iscritto nel ‘37. Era un uomo pieno di contraddizioni, ma inossidabilmente legato a valori di lealtà e coerenza.

È stato Raymond Chandler, del resto, a  sottolineare che La chiave di vetro, il romanzo preferito di Hammett, è la storia della lunga dedizione a un amico. Ned Beaumont si fa quasi massacrare dal gorillesco Jeff, lo scagnozzo di Shad O’Rory, per non tradire Paul Madvig. E  davanti a Janet Taylor, che vuole incastrare Paul, convinta che le abbia ammazzato il  fratello, non esita ad ammettere: «Sono amico di Paul (…) Lo sono,  non importa chi abbia ucciso.» (38)

Beaumont è un giocatore d’azzardo, un uomo cinico che viene dall’ underworld semimalavitoso. Penso che Hammett  si rispecchi volentieri nella sua figura insieme fragile e durissima. Come una chiave di vetro, appunto:

«Vede, Paul mi ha tirato fuori dai rifiuti, come direbbe lei, più o meno un anno fa, e per questo sono sempre un po’ goffo e impacciato quando mi trovo in mezzo a persone come lei che appartengono a un altro mondo –alta società, rotocalchi e tutto il resto- e lei scambia questa mia, ehm, gaucherie  per ostilità, cosa che non è affatto.» (39)

Questa frase di Ned sembra rivolta direttamente da Hammett all’establishment letterario. Sì: lui viene dai bassifondi delle riviste a poco prezzo, dime novel e pulp-magazine, dove anche le fantasie sono a buon mercato. Deve ancora abituarsi all’highbrow. In fondo, che cosa sono mai i suoi romanzi? Come ha osservato Diane Johnson, si tratta di trasposizioni nel mood della città moderna di motivi tradizionalmente cari alla narrativa romantica. In Raccolto rosso  l’Op arriva, come un degradato Cavaliere della Valle Solitaria, a ripulire dai malviventi la cittadina dell’Ovest. La maledizione dei Dain  è una tortuosa ipertrama basata sul vecchio tema della Fanciulla Perseguitata. E Il falco maltese, in sostanza, ha lo schema di una caccia al tesoro. Eppure... Che cosa li rende insieme così esemplari e così assolutamente unici, monoliti piombati giù dallo spazio in un arco temporale brevissimo, ma che dopo più di ottant’anni sono ancora lì a interrogarci, come in genere succede soltanto ai classici?

Innanzitutto la loro diversità. Nessun romanzo di Hammett può costituire una pietra di paragone per quello successivo. Si tratta, ogni volta, di una nuova scommessa. Non accade la stessa cosa con i racconti, soprattutto quelli legati al personaggio fisso del Continental Op (Sam Spade compare molto meno e solo tardivamente). Con il passaggio al romanzo, Hammett si libera dalla convenzione tipica della detective story fin dalle avventure di Sherlock Holmes, dove la figura ricorrente del protagonista fornisce il cardine -e insieme il limite- di una struttura consolatoria basata sull’ineluttabile scioglimento d’una trama intricata. È lo schema, per intenderci, che ha spinto Bertolt Brecht ad affermare che il miglior poliziesco non deve infrangere ma confermare le leggi del genere.

I primi due romanzi hammettiani, Raccolto rosso  e La maledizione dei Dain,  uscirono a puntate su «Black Mask» e poi in volume da Knopf nel’ 29. Hanno per protagonista il Continental Op e sono scritti in prima persona, ossia secondo l’istanza locutoria che tende a sovrapporre e confondere la voce del protagonista con quella dell’autore. L’io-narrante garantisce e insieme tematizza una forte presenza della soggettività del narratore all’interno della trama. Ma qui finiscono le somiglianze. Raccolto rosso, nato per amalgama di materiali romanzeschi su suggerimento del capitano Shaw, ostenta questa sua natura sperimentale, quasi di work in progress, mostrando il caos mentale e morale dell’Op davanti alla violenza da tragedia giacobiana della Città Avvelenata. Tanto secco e misurato è lo stile, quanto smodata e barocca è l’immaginazione. La figura del detective, che pure riesce a salvare la pelle e a vincere la partita, viene messa in crisi al punto che l’Op arriva a sospettare di essere un assassino.

La durezza minerale di Raccolto rosso tende a sfaldarsi negli effettacci della Maledizione dei Dain,più vicino all’hardboiled nudo e crudo di «Black Mask». Si tratta d’uno strano romanzo, forse o senza forse il più brutto e macchinoso dei cinque scritti da Hammett. Ma la sua struttura è piuttosto interessante: le tre parti in cui è suddiviso corrispondono infatti ad altrettante trame che, seppure collegate dallo scioglimento finale, potrebbero essere scorporate e funzionare autonomamente. Anche qui, di fronte al rischio del romanzo «ben fatto», Hammett reagisce per addizione, complicando gli eventi e le soluzioni impreviste, che si sommano e si smentiscono in una costruzione  a cadenza d’inganno, dove l’universo narrativo viene insieme potenziato e centrifugato, fino a farlo collassare. In questa decostruzione del plot per via di ribaltamenti e di eccessi, non è certo un indizio privo di significato il fatto che il colpevole, alla fine, risulti lo scrittore Fitzstephan, trasparente controfigura dell’autore in versione villain.

Penso che il  genere-romanzo fosse per Hammett come la tubercolosi: una tabe esistenziale che non si può discutere, ma solo affrontare con le proprie armi per riuscire a conviverci e, in qualche modo, venirne a capo. In tal senso, le difficoltà incontrate dal Continental Op corrisponderebbero a quelle di Hammett nel tormentato passaggio dalla forma del racconto a quella del detective-novel. Le complicazioni della trama in Raccolto rosso e la sua moltiplicazione nella Maledizione dei Dain  sono sia un correlativo oggettivo dell’indecifrabilità etica e logica del mondo, sia continue scommesse per rilanciare una narrazione in cui la tentazione dell’opera aperta sembra a lungo confliggere con un genere canonicamente «chiuso», legato all’epilogo esemplare, com’è il romanzo poliziesco. Proprio perché non sa neanche lui come andrà a finire, Hammett reagisce creativamente alla sfida, alzando continuamente la posta a livello d’intreccio, allo stesso modo in cui accresce il numero dei cadaveri fino all’inverosimile (al ventesimo capitolo di Raccolto rosso se ne contano già sedici in meno d’una settimana, il diciassettesimo sarà quello di Dinah Brand). Per una specie di effetto-boomerang, ciò provoca paradossalmente una ricaduta realistica: nient’altro che questa violenza iperbolica può raccontare il marciume della Città Avvelenata, così come soltanto il silenzio dell’Op su se stesso può parlarci del nostro anonimo trascorrere nel mondo.

Con Raccolto rosso Hammett esce dalla scuola di «Black Mask», portando le convenzioni dell’hardboiled al punto oltre il quale esse diventano qualcosa d’altro, specchiandosi nel proprio contrario. E le ambizioni, espresse dallo scrittore, di introdurre nel poliziesco la tecnica dello stream of consciousness, la dicono lunga in proposito. Alla base di questa disfida romanzesca non c’è però l’oltranza d’un letterato d’avanguardia, ma la vitrea fragilità del parvenu dei bassifondi, il Ned Beaumont tisico che viene dai pulp, partendo da un non memorabile passato di detective, sta dando la scalata all’Olimpo dell’Alta Letteratura.

Il falco maltese  e La chiave di vetro  segnano il punto in cui Hammett ha imparato a convivere con il romanzo, non lo considera più una tabe pericolosa, da esorcizzare sgangherandone spericolatamente la forma. L’adozione della terza persona è in questo senso una buona spia, se è vero che essa esprime una maggior fiducia nell’esistenza di un punto di vista «dall’alto», o almeno dall’esterno, che consenta l’obiettività della narrazione. Hammett non ha più bisogno del personaggio fisso. Il protagonista cambia ogni volta: Sam Spade nel Falco, Ned Beaumont nella Chiave di vetro. Poi toccherà a Nick Charles nell’Uomo ombra.

Il ritorno alla soggettività locutoria dell’Io nell’ultimo romanzo coincide con l’adozione di una specie di falsetto narrativo. Con Nick, il detective mette la sordina al suo sordido e duro passato, diventa una figura piena di glamour. E lo slang dei malviventi, che qua e là nel romanzo spuntano a ricordargli il suo vecchio mestiere, è solo il divertente contrappunto al linguaggio spiritoso e forbito di chi ormai appartiene allo smart set. Il  mondo dei bassifondi, da specchio mostruoso d’una società mostruosa, regredisce a tocco di colore. Si edulcora riaffiorando come citazione d’un passato che, in quanto tale, è oggetto di ironia e nostalgia.

Ma c’è un altro underworld a garantire il sotterraneo persistere della violenza. È il mondo dell’oltretomba. Ad esso appartiene il bislacco scienziato Wynant, l’eponimo «uomo ombra» del romanzo: capelli bianchi, baffi spelacchiati, alto «più di un metro e ottanta, e  anche uno degli individui più magri che abbia mai visto.» (40)

Anche qui non è difficile scorgere un’autocaricatura di Hammett. Certo l’autore non poteva sapere che L’uomo ombra sarebbe stato il suo ultimo romanzo compiuto. Il senno di poi, in queste faccende, è di grande aiuto. Eppure non riesco a fare a meno di mettere in relazione la figura fantomatica di Wynant, un uomo che non c’era più, con quella di uno scrittore finito.

Nel testo, il titolo viene spiegato a un certo punto con la barzelletta del tizio talmente magro da essere costretto a fermarsi due volte nello stesso posto per riuscire a gettare la sua ombra. «Wynant non è magro fino a quel punto» obietta Nick, «ma è magro quanto basta. Diciamo che è magro quanto la carta di quell’assegno e  di tutte quelle lettere che continuano ad arrivare a destra e a manca... Clyde Wynant è morto. È morto da molto tempo, eccetto che sulla carta.» (41)

Quale miglior deprofundis di Hammett per se stesso, quale miglior viatico verso i lunghi anni di silenzio, fino a quelle estreme letture di Dracula  e di Engels fatte al cospetto di una tartaruga? Sopravvivere sulla carta,  anche quando si è morti da molto tempo, è la scommessa di ogni scrittore. Hammett l’ha vinta.  Con rigore morale, abilità tecnica, dedizione al linguaggio. Senza mai mollare la presa su se stesso. E tanto basta. Interrogarsi troppo sul precoce inaridirsi della sua vena creativa sarebbe un esercizio sterile. Càpita, agli scrittori, quando non sono solo manichini del mercato o inguaribili narcisisti, ma persone reali, che soffrono e s’ammalano e invecchiano come tutti. E tuttavia con un fardello in più: il peso delle parole che si portano addosso. Non lo si può dire meglio di quanto abbia fatto Peter Bichsel:

 «Se uno scrittore che invecchia smette di scrivere forse non è perché non  trova più gli argomenti o la forza. Forse si è scritto tanto a lungo sul corpo che non c’è più posto per qualcosa di nuovo, forse ha le spalle così cariche da non riuscire a portare più nient’altro. In questo senso scrivere è anche una questione di limiti, la questione di quanto un autore sopporti e sia disposto a portare.» (42)