Litania Meridiana, Manuela Maddamma

dal passato, su un diario di stoffa rossa cinese

(Campo de’ Fiori, primavera 1989)

 

 

Notti che scorrono accostandoci alla morte

Antiche mura che si tingono d’alba.

Occhi dipinti dal sole nei suoi lazzi crudeli,

Due rapide luci scavalcano le mura

E si schiantano a me di fronte

Guardandomi pigramente intenta

Accumulare frammenti di gioia.

Sole dopo sole mille strati d'ombra

Di giorni che mi recludono

Dolori affogati nel cupo sangue.

Forse siamo già morti e questo tempo

Infinito son ricordi che vivono

Sulle chiuse palpebre ancora calde.

Gli esseri felici sono quelli che hanno già rinunciato alla vita.

Violata la mente spazzata dal vento

Che dissecca gli spettri della fantasia.

Vorrei riposare sospesa

Ancora una notte mi sono calata

Nel mondo vestito d'innocenza

Conservando i colori del sacrificio.

Non è necessaria una notte non è necessario

Il dolore maturato a occhi aperti

Nel tentativo di penetrare l'assurdo buio.

Già noi veniamo dalle tenebre

Oscure densità che divengono via via

Campi, città, rupi.

E' caldo e manca un fiume in questo mercato

Dove guardare il riflesso dei rettangoli ombrosi:

Ho rinunciato a filare voci e la mia bocca

Non tesse tappeti con labbra altrui,

Le poche fila che ancora brillano

Sono i resti di un'argentea ragnatela

Devastata dalla mia mano bambina

Nell'angolo scuro dell'armadio.

Voci delicatissime si levano al cielo.

Qual è la realtà di queste parole

L'una all'altra accostate seguendo

L'orizzonte vago di colline che divengono

A tratti gole e pianure e fiumi?

Il movimento del precipitare in se stessi

Dirigendosi verso il proprio dolore che narra

Seduto nella solitudine dell'anima

L'agonizzare di un pensiero senza voce.

Fatalmente l'inutilità della finzione

Sortisce i suoi effetti devastando l'anima

Di chi, come il sordo o il cieco, è testimone.

Gli stessi volti che appaiono su questa piazza

come luci fatue, gli stessi giochi ove il terrore

di rivelarsi precipita il linguaggio

in un ridere crudele e suicida.

Il sole della giornata che accresce

La danza della notte insegue il fresco riposo

Bruciando terra ai confini del mio sogno.

Similmente all'intuizione che sottrae folgorando

colore alle immagini della menzogna.

C'è come un mondo che non esiste

Che non appare né luminoso né oscillante

Di colore, il giocoso bacio delle possibilità

In eterno equilibrio tra vita e oblio.

Quella che credevo essere una festa

Nell'accendersi improvviso della solitudine

Oggi meglio si guarda nel vento;

Non è che il rito quotidiano

Del contrario del mondo, un apparire che è

Un respiro, unico ritmo in cui si mantengono

In vita le nostre inquietudini.

Velenoso oggi il dialogare

Tra le quinte dei miei sguardi aspri.

Nel grigio trasparente ancora sole e ombra

Giocano lealmente, sogni d'acqua luminosa

Che dipingono altri palazzi sui veri palazzi

Creando ritmi rarefatti.

Ma oggi è giornata di tedio, di solitudine,

Di rimorsi silenziosi scolpiti sulle venature

Dei ricordi, non sento nulla, più nulla per questa

Città che accoglie i miei sogni; è tutto vano,

Il racconto, la preghiera, la volontà

Di ricostituirsi fanciulle vivificando

L'anima candida dei tempi trascorsi.

Attraverso con nostalgia, invisibile

La grande strada agli occhi girovaganti

Di esseri stagliati nel cielo.

I rumori scivolano sul silenzio senza

Annientarlo, ho cercato furtivamente le tracce

Di una bambina rimasta a camminare

Senza equilibrio verso la piazza

Le foglie tremulano dalla finestra illuminata

Come la rappresentazione di un'allegria perduta,

Emozioni vagano nel reale illuminate

Da una luce senza origini, senza ombre,

Senza fughe, emigrata per sempre.

Il silenzio ha fatto la tana dorata nei miei occhi,

Riempito d'acqua le mute parole.

Al riapparire della perduta vita

Non vedo nel mondo la traccia del sogno,

E l'illusione ha il peso del vero.

Forse è una catena a stringere i polsi

Dell'anima, un gioco a cui siamo sottomessi

Nella piazza delle inquietudini.

Forse è soltanto una vaga voce da tacitare.

L'evento della morte che nasce improvvisa

Dal terreno dei nostri incubi, attimo

In cui tutto ciò che era dimenticato

Avviene.

Manuela Maddamma

 
 

Contro l'aperitivo, Filippo Bologna

 "IL",  Il Sole 24 Ore, 17 10 2012

     Un tempo appannaggio di aristocratici signori che giocavano a bridge e fumavano col bocchino, eccentrici viaggiatori stranieri che trascorrevano oziose vite nei migliori alberghi del mondo e alcolizzati professionisti che ammazzavano il tempo (e il fegato) ai tavoli dei bar, oggi l’aperitivo è diventato un obbligo sociale, una moda e un’ossessione. L’Italia è ormai di fatto una Repubblica fondata sull’aperitivo. Liceali che si mettono insieme o si lasciano per uno Spritz di troppo, manager molto – forse troppo – sicuri di sé che concludono fusioni societarie sorseggiando un Long Island, casalinghe che si scambiano imbarazzanti confidenze raschiando con la cannuccia il fondo zuccheroso di un Mojito, teppisti che si ritrovano col calicino di prosecco in mano prima di posarlo per picchiare un pensionato che chiede gentilmente di spostare la macchina in doppia fila. Tutto ormai avviene prima, durante o dopo l’aperitivo. Possibile che i sacerdoti dell’aperitivo, i protagonisti dell’happy hour - che ci sarà poi da stare tanto allegri? - non si accorgano che il rito serale cui partecipano, più o meno consapevolmente, non ha nulla a che spartire con l’aperitivo? Una persona che ama bere non può amare l’aperitivo così come si è codificato negli ultimi anni.

 

      L’aperitivo dovrebbe “aperire”, ossia aprire, preparare lo stomaco alla cena stimolando i succhi gastrici, e non chiuderlo inzeppandolo di cibo fino a rendere la cena uno stucchevole pleonasmo. Chi s’intende un minimo di alcolici, sa benissimo che i maggiori effetti di quella droga legalizzata che per convenzione chiamiamo alcol si ottengono a stomaco vuoto. E’ risaputo che bere a digiuno, soprattutto i primi sorsi, provoca sensazioni prodigiose quali immotivata fiducia nel futuro, smodata indulgenza verso i propri difetti e irragionevole stima di se stessi. Ora però, chi sa queste cose sa anche che bere a digiuno ubriaca, e rotolare sotto il tavolo non è il modo migliore per godersi un aperitivo. Il segreto sta nel mantenersi in un limbo di sconsiderata ebbrezza, un vago ma diffuso benessere che dev’essere mantenuto costante, come la temperatura nella sauna versando la giusta quantità d’acqua sulle pietre bollenti. E per non ubriacarsi bisogna mangiare. “Cosa mangiare” è altra questione, ma non meno importante. Poco, decisamente poco. Intanto lasciate perdere quei pastoni immondi di farro, quelle insipide paste fredde e panzanelle scondite, quegli essudati tramezzini e quegli esotici spiedini di frutta che accompagnano ogni buffet. Anzi, usate la presenza di questi mangimi come indicatore di degrado e diffidate da quei posti che li ostentano senza vergogna: sotto piatti e piattini si cela quasi sempre l’incapacità di servire al cliente un cocktail fatto a regola d’arte.

 

      L’aperitivo è diventato oggi la caritas dei ricchi, la mensa della classe media, dove tutti credono di poter mangiare con 10 o 15 euro, quando in realtà per quella cifra nel migliore dei casi otterranno due risultati in uno: un aperitivo mediocre e una cena scadente. Provate dunque a osservare la frenesia compulsiva mentre si consuma la tonnara dell’aperitivo, contemplate la desolazione del buffet dopo che si è consumato l’orrido pasto: lo scenario vi si rivelerà in tutta la sua decadente verità, rassomigliando molto più ai resti di un banchetto funebre che agli avanzi di una festa nuziale. I bar in cui di solito si consuma questo delitto hanno una doppia vita. In questi locali di giorno si possono trovare agenti immobiliari in grisaglia e scarpe a punta, impiegati ministeriali dalle cravatte sintetiche e praticanti di studi legali col casco sottobraccio, arrivati a bordo di ruggenti scooter che sembrano scaldabagni su due ruote. Vanno al bar a pranzo e consumano la pausa mangiando panini e insalate. Masticano con lentezza, misurando il loro disgusto prima di tornare in ufficio, nella speranza di strappare un appuntamento a una giovane collega che fa finta di non guardarli bevendo una centrifuga di carota. Di sera quegli stessi posti si trasformano, si rianimano, abbassano, o alzano, le luci, mettono un sottofondo di musica su cui apparecchiano il loro sabba, con spiedini e stuzzichini, candele e vassoi, piatti e forchette di plastica. E nel medesimo bar travestito si danno appuntamento per la cerimonia alcolica gli stessi che vi hanno trascorso la pausa pranzo. Solo che ora indossano altre vesti, adesso hanno un’altra luce negli occhi, sono voraci, volitivi, esuberanti, in altre parole: sono pronti per l’aperitivo.

 

      E io mi sento sempre più solo. Non sono le persone a mancarmi. Ma i posti in cui incontrarle. Sapevo che in quella via c’era un bar, un piccolo bar aperto fino all’alba. Stretto come un budello, squallido e un po’ buio, il bancone di marmo e il pavimento di graniglia, lo specchio dietro alle etichette della sambuca e degli amari. Un posto dove di notte i netturbini con gli occhi gonfi di sonno venivano a girare lentamente il cappuccio e i transessuali col trucco bistrato a divorare tramezzini avanzati, i poliziotti a bersi un caffè e i tossici a chiedere un limone. Tutti assieme, in una reciproca ma civile diffidenza. Torno dalle vacanze. Giro nervosamente per il quartiere, cerco quel bar ma niente. Eppure dev’essere qui, mi dico, anzi, ne sono sicuro. Poi d’un tratto riconosco la piazza, la farmacia all’angolo, il fioraio all’incrocio. E finalmente, tra le rovine dei neon, trovo ciò che resta del mio bar. Al posto di quel misericordioso ristoro notturno c’è una sfarzosa luminaria. E davanti alle vetrine niente netturbini né poliziotti, niente tossici né transessuali. Ma un crocchio di spavaldi studenti con le camicie inamidate e i pantaloni bassi che lasciano sfrontatamente intravedere i boxer cifrati, e studentesse coi capelli biondi e le borse firmate. Sostano sotto grandi ombrelloni col marchio di un rum. Bevono e fumano seduti ai tavoli, o in piedi, poggiando i bicchieri di plastica sulle macchine parcheggiate. Ridono scoprendo denti bianchissimi mentre si mostrano le foto negli schermi dei telefonini. Come un clochard butto l’occhio dentro il locale senza avere il coraggio d’entrare: luci sparate, baionette di prosecco, arsenali di Aperol e Campari, un frigo carico d’instabili sostanze fluorescenti, e un barman imbrillantinato che tradisce il nervosismo di chi è ancora in prova. Il padrone che prima mi offriva un cicchetto di Amaro del Capo – e che rifiutavo con timida determinazione – troneggia in cassa; conta i soldi tra le dita grasse e con la coda dell’occhio segue l’andirivieni ancheggiante di giovani cameriere dalle camicie scollate e dalle unghie ricostruite. Rimonto in moto con l’orgoglio ferito dei vinti, e, mentre mi allontano, piango un compagno caduto. L’ennesimo in questa città, dopo che hanno messo una tavola calda al posto della rivendita di libri usati, dopo che hanno chiuso la sartoria artigianale per insediare un outlet spagnolo. E’ una marea che si ritira, lenta ma inesorabile, si porta via alberi e panchine, pensiline e piazzette, barbieri e artigiani, botteghe e caffè, tutto viene risucchiato. E quando il mare ha finito di ritirarsi, dalla riva in secca contemplo lo sfacelo e faccio una stima dei danni che mai nessuno potrà risarcire: tavoli di alluminio, pavimenti in finto marmo, sedie di plastica, lampade alogene, insegne stroboscopiche, schermi al plasma, murales, acquari e piante tropicali.

 

      Pub, internet e lounge caffè, loro sì che hanno saputo cavalcare l’onda lunga del cambiamento. Chi è rimasto travolto è il bar senza aggettivi. E non sto parlando dei bar di paese, del mitico “bar sport” con biliardo e biliardino, dove si discute di Calcio&Caccia&Ciclismo, tipologia sempre più rara anche nella provincia profonda. No, sto parlando di quei posti intimi e raccolti, con la luce bassa, senza musica, dove bere in solitudine non è ancora sospetto e i baristi non si sforzano di essere simpatici o loquaci, posti che non esistono più. I pochi sopravvissuti ai rifacimenti dei proprietari, ai cambi di gestione, agli architetti di grido e agli arredatori di moda, ai dj e ai barman acrobatici, ai punti luce e ai divanetti color crema, ai dehors e alla musica di sottofondo, sono ormai defilati, quasi imboscati e cercano di non dare troppo nell’occhio. Si nascondono nel ventre di decadenti e blasonati alberghi, prediligono quartieri fuori mano, strade anguste e poco battute. Hanno paura della furia iconoclasta del nostro popolo, che è sempre pronto a lasciare il vecchio per il nuovo, e il bello per il brutto, purché sia nuovo, purché sia brutto. Basta entrare in un pub londinese o in un bistrot parigino, affondare nei divani rugosi, carezzare i legni consunti o ammirare gli ottoni bruniti per capire che altrove non è così, che all’estero non si ha vergogna del passato. Se gli inglesi il passato lo vivono e i francesi lo rimpiangono, gli italiani lo rimuovono. Insomma, le calamità saranno anche inevitabili, ma ad aggravarle c’è sempre la mano dell’uomo. E in questo caso, la mano stringe il bicchiere con l’Aperitivo. Il vero bar si è disciolto nell’aperitivo, una specie di metafora liquida dell’evanescenza e dell’inconcludenza dei nostri tempi.

 

      Per fermare questa eresia l’unica via praticabile è una robusta controriforma. Tanto per cominciare la lista dei beveraggi va severamente ristretta all’olimpo dei cocktail. E l’Olimpo accoglierà solo la santità del Martini Cocktail, la tradizione del Gin Tonic, il carisma del Daiquiri e la robustezza del Margarita, l’aristocrazia del Bloody Mary e, in via del tutto eccezionale, il colonialismo del Pimm’s. La rivoluzione dell’aperitivo imporrà dunque un’involuzione tecnologica e un brusco ritorno al bianco nero. Intanto via l’arancione: non si abbia paura di lasciare lo Spritz ai goliardi studenti universitari nel Nord Est. Via anche il verdastro Mojito che va bene per i turisti in costume e infradito a bordo vasca (un giorno capirete che era solo ghiaccio e zucchero, ghiaccio e zucchero), via persino – e qui so di essere impopolare - le tonalità sanguigne del Negroni e dell’Americano. Se siete troppo sentimentali non disperate: la gloriosa memoria dei bitter sopravviverà in un Milano-Torino con Carpano antica formula. Stop per quanto riguarda il beveraggio. Per quanto concerne le cibarie invece, sono ammesse pochissime varianti al magistero della patatina (sempre croccante), dell’oliva verde (solo col nocciolo), delle arachidi (meglio se grandi e poco salate) e del sottaceto. Al massimo è tollerata la tartina, purché fresca e appena spalmata su pane in cassetta ancora morbido. Bene.

 

     Se arrivati fin qui vi sentite smarriti e non sapete più come dove e quando andare a farvi l’aperitivo, in attesa che vi si chiariscano le idee, ve lo dico io. A casa vostra. E con una spesa ammortizzabile nel breve periodo potrete godere con pienezza di tutta l’inutile voluttà dell’aperitivo. Partirete dal più difficile e più facile, il più semplice e misterioso drink di sempre: il Martini Cocktail, l’equivalente della maionese, che può impazzire o raggiungere la perfezione per una variabile misteriosa e infinitesimale.

 

    Se non avete raffinate rivendite di liquori vicino casa, basta un volgare supermercato dove acquistare il necessario per convertirvi al bricolage dell’aperitivo.

 

      Le righe che seguiranno sono inutili per gli astemi, pleonastiche per i professionisti, didattiche per i neofiti; se fossero un saggetto da vendere allegato a un giornale le intitolerei Il Martini Cocktail spiegato al figlio che non ho (ma che vorrei). Ci si procuri dunque il necessario.

 

    E il necessario consiste in: una bottiglia di gin (un umile Gordon o un Beefeater possono regalarvi soddisfazioni degne di un più ricercato Tanqueray, mai Bombay o gin troppo speziati che caso mai adoprerete per il Gin Tonic), e una di vermouth (il classico Martini Dry per i tipi senza pretese, Noilly Prat per i più esigenti). Poi una a scelta tra queste tre cose: olive verdi, cipolline sottaceto o un limone, a seconda delle preferenze. Dopo le materie prime passiamo ai ferri del mestiere. Non servono né mixing glass (un capiente bicchierone di vetro), né stir (un lungo cucchiaio), né passino (un passino).

 

     Basta un bicchiere da Martini e una bottiglia di profumo. Il bicchiere non merita delucidazioni. Per la bottiglia di profumo il massimo sarebbe una di quelle bottiglie agé con lo spruzzatore a peretta, ma va bene anche una semplice bottiglietta di plastica con un nebulizzatore tipo quelle degli intrugli che le donne usano per la pulizia del viso; se avete una moglie o una fidanzata avete capito di cosa sto parlando, se non l’avete ancora fate a tempo a ripensarci. Se oltre alla donna non avete nemmeno una delle cose suddette, siete molto sfortunati, o molto fortunati, dipende dai casi. Trovata la bottiglia lavatela più e più volte, finché non “puzza” più di profumo. Bene, riempitela di Martini Dry o del vostro vermouth preferito. Andiamo avanti. Un barman professionista troverebbe ciò che vi sto per dire eterodosso o quantomeno scorretto: ridetegli in faccia. A casa propria vige l’extraterritorialità e nessuno è soggetto ad altra legge che non sia quella del padrone di casa. Per cui prendete un bicchiere da Martini, sciacquatelo, lasciateci sul fondo mezza unghia d’acqua, che sciogliendosi servirà ad emulsionare la mistura, e mettetelo in freezer. Metteteci anche una bottiglia di gin. L’alcol dovrebbe ghiacciare alla metà della sua gradazione alcolica (se fa 40 gradi alcolici dovrebbe ghiacciare a -20 centigradi), per cui in teoria non dovrebbe ghiacciare. In teoria. Perché a me è una volta è successo nel sottovalutato congelatore di casa. Ad ogni modo, sperando che ciò non accada, quando il bicchiere è ghiacciato e ha assunto un colorito bianco opaco estraetelo dal freezer. Versate rapidamente il gin. Prendete la bottiglia e nebulizzate una due o tre zaffate (a seconda di quanto vi piace secco) di Martini sulla superficie del gin, avendo cura di bagnare anche i bordi del bicchiere. Mescolate con un cucchiaino e aggiungete a piacimento l’oliva, la cipollina (nel qual caso avrete creato un Gibson) o un twist di limone (la buccia andrebbe spremuta con una torsione, affinché gli oli essenziali dell’agrume imperlino di microscopiche chiazze la superficie del cocktail). Accompagnate il tutto con patatine, olive, o noccioline. Dopodiché dimenticate il bar chiassoso in cui andavate prima e la cassiera con il trucco pesante e il vicino che urla al telefonino nel vostro orecchio. Sprofondate nella vostra poltrona, aprite un libro, mettete su un disco, accendetevi un sigaro e godetevi il vostro Martini.

 

      Perché se la speranza di non essere ancora morti è sapere che da qualche parte, là fuori, c’è un bar aperto, quella di essere ancora vivi è sapere che da qualche parte, là dentro, avete del gin, e del vermouth naturalmente.

 

Filippo Bologna

 

Olmo, Sylvia Plath

Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa
radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.

E' il mare che senti in me,
le sue insoddisfazioni?
O la voce del nulla, che era la tua pazzia?

L'amore è un'ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.

Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
finchè la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino
una zolla,
rimandando echi ed echi.

O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.

Ho patito l'atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di
ferro.

Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
Un vento di tale violenza
non tollerà neutralità: devo urlare.

Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
crudelmemte, lei che è sterile
Il suo splendore mi folgora. O forse l'ho catturata.

La lascio andare. La lascio andare
diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.

Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.

Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato,
la malignità.

Le nuvole passano e si disperdono
Sono quelli i volti dell'amore, quelle pallide
irrecuperabilità?
E' per questo che agito il mio cuore?

Sono incapace di maggiore conoscenza.
Che cos'è questo, questa faccia
così assassina nel suo strangolio di rami?

Sibilano i suoi acidi serpentini.
Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate
e lente
che uccidono e uccidono e uccidono.

 

Sylvia Plath