Ultima estate e Privati abissi -Libraria.it

Gianfranco Calligarich "L'ultima estate in città" + "Privati abissi"

«Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine.»

La prima di 179 pagine inizia così, con un incipit che è un capolavoro. “L’ultima estate in città” è la voce di Leo Gazzarra, trentenne, che guarda una bellissima baia mentre alle sue spalle una superstrada a tre corsie fora la roccia della montagna.
Gli anni in cui a Milano c’è il Miracolo Economico, quella specie di sboom che Bianciardi ha decostruito nella sua incazzatura solenne, “La vita agra”. Leo non è il tipo con le idee chiare, non ha fretta di scomparire nella vita famigliare e non ha passepartout per i piani alti. Accade allora che una rivista medico-letteraria abbia bisogno di redattori nella nuova succursale romana. Leo parte. Quella che trova è la Roma abbagliante degli hippy stravaccati a piazza Navona, la Roma che è ancora un città di popolo, dove le strade del centro sono un maquillage di decadenza e perfezione, dove l’Urbe è il tremolio delle cose che forse stanno per cambiare, ma a Leo, di questo, non importa. Viene licenziato dopo un anno, e per un po’ aspetta, passa le giornate sul mare di Ostia, legge, incontra facce di rifugiati: tutti hanno attesa negli occhi, Leo ha le tasche che si restringono. La città è quel vortice di Eliot che ti brucia i ricordi, chiede di essere amata e non accetta rifiuti. Leo trova una sistemazione a casa di Glauco e Serena, che partono come fracassati dall’inerzia romana. Spesso è ubriaco, non sempre, dice all’amico Glauco, ché tra spesso e sempre c’è differenza. Così nel sangue gli scorre l’alcol, Django Reinhardt nelle orecchie, e qualcosa si smuove. Entra al Corriere dello Sport. Come dattilografo. Nient’altro. Ma è già qualcosa. Così inizia la fine proclamata all’inizio. Si chiama Arianna, la fine, mentre un vaso di noccioline stuzzica la fame olimpica di Leo. E da qui il romanzo cresce come la luce che screzia i grattacieli dell’EUR, e si fa bere come una lettera di Dylan Thomas, come un’arringa etilica di Graziano, l’amico che riempie le pagine di una stoffa che sa di gin e Kavafis. Così scorre il romanzo, scorre come una valigia di sigarette in una trincea. Niente di ciò che è scritto è perfetto, ma tutto riempie, si concentra al punto di disturbare il pieno di parole, fa il suo sporco lavoro, e lo fa senza nascondersi.
Trentacinque anni per scrivere un libro. 35, in cifre, sono tanti anni. Metà di una vita. Metà della vita dell’autore, per esempio. Scrivere un libro come “Privati abissi”, con il battito del cuore che dà il ritmo alla lettura, “uno scompensato muscolo cardiaco” che racconta i fatti, la storia, una storia che sembra scritta per ritardare “il definitivo inchiodo”. E se è vero che Qualcuno ha detto che il romanzo è una forma di nostalgia, è vero anche in questo romanzo. Essere affacciati su una storia d’amore e raccontare di rimessa le vite degli altri, che contengono parti dell’apparato cardiaco che abbiamo lasciato per strada, è questo il gioco del giocatore. Dalle architetture della letteratura abbiamo imparato che una storia può contenere Stendhal e Tolstoj, e che ogni storia che meriti parla di sconfitte, e che certi sconfitti sono più belli di altri. Calligarich formula la sua prosa meditata, masticata quanto un pontificato, limata alla maniera di un Lish, concimata da una punteggiatura, paradossalmente, manierista. Il battito del cuore, appunto. Della storia non racconterò. Non dirò che tutto inizia con un funerale. Né che lo Sprangato Partner perderà. Non dirò che un giocatore d’azzardo respira più degli altri. Ma posso dire che il lettore allargherà spesso le narici. E che se sono serviti 35 anni per scegliere l’ultima stesura di “Privati abissi”, allora, forse, ne è valsa la pena.

Marco Lupo