Privati abissi

di Mariella Soldo

Giovedì 13 Ottobre 2011 00:00
Privati abissiCome concepire l’inizio di una storia? Come cominciare, dal momento che anche la fine potrebbe costituire l’incipit di una narrazione?

Gianfranco Calligarich nell’ultimo suo romanzo, Privati abissi, preferisce mettere al riparo il lettore da ogni illusione possibile di felicità e partire da una “sconfitta”, perché “se proprio si vuole, solo le sconfitte vale la pena di ripensare” (p. 14). Così il narratore, un giocatore d’azzardo, svela le trame di una storia d’amore tormentata e maledetta tra due persone benestanti, vittime imperdonabili di “ciò-che-conta”, inseguendo le loro vicende come se la penna della voce narrante fosse l’occhio di una telecamera attenta e sensibile. I due protagonisti s’incontreranno ogni volta per lasciarsi, rincorrendo quella libertà che porta inevitabilmente a un profondo bisogno di solitudine e, soprattutto, a una trama indicibile di conturbanti segreti mai confessati.
La scrittura, a volte tortuosa e lenta, a volte frammentata e veloce, sembra seguire i ritmi imprevedibili del cuore, quel “muscolo cardiaco” spesso citato nel romanzo, contenitore imperfetto di sentimenti e verità, e chissà, forse il vero protagonista della storia.
La presenza rada dei nomi propri, sostituiti da perifrasi ironiche e poetiche - i due protagonisti vengono definiti rispettivamente lo Sprangato Partner e la Cupa Penelope - , mettono in luce una scrittura dalle esigenze diverse, non banali, che si libera della routine della definizione, per condurre il lettore verso l’indicibile e il diversamente inespresso.
Attraverso una fredda ironia e una poesia che cede soprattutto al fascino indimenticabile di alcune città, tra cui Roma e Bengasi, Calligarich ci restituisce, con abilità narrativa e originalità, una storia frantumata, in cui la bellezza effimera lascia spazio a un’inevitabile solitudine e a una irreversibile estraneità.
Cosa resterà dello Sprangato Partner e del suo sentimentalismo ormai fuori tempo? Forse solo un’immagine, che segna per sempre l’immobilità dell’uomo: “Solo la sua fotografia presa di spalle nell’albergo sahariano che sbiadiva su una delle pareti del locale insieme a quelle di altri cosmopoliti esuli spariti anche loro sotto i vecchi, in scansabili cingoli del tempo. Niente altro” (p. 233).

Gianfranco Calligarich, Privati abissi, Roma, Fazi, 2011.