Passeggiata coi cani, G.C.

 "Satisfiction" n.9

L’uomo che in una fredda notte romana era sceso nella antica e bellissima strada dove aveva la fortuna di abitare per farsi portare a spasso dai suoi due cani - padre e figlio meticci come recitava il loro documento -  prima di andare dormire ,quella sera, invece di guardare come le altre sere i vecchi palazzi della strada, teneva lo sguardo basso pensando ai cani e ai gatti.
 Sapeva che era un discorso ozioso. Ma era anche l’argomento che poco prima a cena a casa sua con un gruppo di amici aveva scatenato una improvvisa, irragionevole bagarre. Tutto era nato quando, nelle casuali chiacchiere del dopo cena, un’amica che non possedeva né un cane né un gatto aveva detto che forse le sarebbe piaciuto avere la compagnia di un gatto.
“Meglio se prendi un cane”, si era ritrovato a dire l’uomo senza quasi accorgersene. E di colpo, come a volte può succedere anche tra amici che si vogliono bene, si erano creati due fronti opposti e irragionevolmente aggressivi come se parteggiare per i cani o per i gatti  si fosse all’improvviso rivelato qualcosa di fondamentale per le loro vite. Finchè, nella foga della discussione, l’amica che avrebbe voluto avere un gatto aveva detto all’uomo qualcosa di un po’ crudele. E quella era la ragione per cui, nella fredda notte romana l’uomo pensava ai cani e ai gatti. Chiedendosi perché si fosse cosi apertamente schierato dalla parte dei cani.
    Certo li amava. Ma questo non voleva dire che non amasse anche i gatti e nella sua  casa di campagna ne ospitava un numero variabile da tre a cinque a seconda dei misteriosi e più meno lunghi impegni che hanno sempre i gatti in campagna. Gli piaceva averli intorno così come  trovava piacere sia a dargli da mangiare che a stare fermo mentre loro si strusciavano  contro le sue gambe nell’insistito e voluttuoso modo che hanno i gatti di appropriarsi dei loro padroni.
    Non solo ma quando da giovane aveva messo fine a un matrimonio troppo precoce per mettersi a fare lo scrittore tutto quello che si era portato via da casa era uno scaffale di libri e una gatta nera che aveva chiamato Mona in maggio all’eroina della “rosea crocifissione” di Henry Miller. Aveva poi avuto altri gatti e per tutti aveva scelto i  nomi con la cura di un battesimo. Da un grosso persiano grigio che aveva chiamato Hemingway perche gli ricordava lo scrittore da vecchio, a una persiana nera e nevrotica che aveva chiamato Pioggia per averla portata a casa in macchina durante un furioso temporale,a un soriano tigrato chiamato Soldato perché segnato dalle ferite di mille battaglie, a Putiferio, un’altra soriana vero iradiddio per le tende con l’abitudine di fare cadere dal cassettone sul pavimento le chiavi di casa per far capire che voleva uscire, a Gonzalo, un elegante bianco e nero con il vezzo di accompagnarlo in bagno ogni volta che doveva fare una doccia per poi restare a osservarlo attraverso i vetri della cabina rigati dall’acqua.
Sì, poteva dunque tranquillamente dire di amarli, i gatti. Si domandava allora perché in quell’animato dopocena si fosse schierato, anche lui con l’irragionevole foga degli altri, dalla parte dei cani come per qualcosa di fondamentale della propria vita. E allora  stabilì che lì, nella fredda notte romana,  ozioso o no potesse essere  il discorso, doveva darsi una risposta.
    “Perché i gatti gira e rigira alla fine sono sempre inafferrabili mentre i cani dipendono da noi”, si disse d’impulso. “E questo mi commuove”, aggiunse non trovando altro termine per definire il sentimento che provava verso i cani. “ E poi  perchè ti leggono nel pensiero”, concluse pensando come sempre gli bastasse pensare “adesso li porto a spasso” che subito loro si presentassero davanti a lui con le orecchie dritte e gli occhi lucidi come se lo avessero sentito. Ma da quando si ama qualcuno perchè ti legge nel pensiero? “Caso mai ci sarebbe da diffidarne”, replicò a sé stesso. Allora ci pensò ancora. “Mi commuovono perché sono sempre stati vicini all’uomo” si disse storicizzando un po’. Aveva letto Lorenz e sapeva che i cani discendevano da quegli sciacalli che agli albori dell’uomo avevano seguito nella savana primordiale i nostri grugnenti progenitori aiutandoli, insieme al fuoco, a tenere lontane le belve quando si accampavano nelle radure al calare delle tenebre. ”Così come adesso ti aiutano a tenere lontane le belve del tempo che passa. Fedelmente”, si disse.
Sì, la fedeltà era un buon argomento. Lo è sempre per giustificare la commozione. Ma c’era anche qualcos’altro. E allora cercando di capire cosa fosse provò a pensare a cosa gli piacesse di più fare con i suoi cani.
“Comprare un bel pezzo di pane bianco senza sale e mangiarne un pezzo io e un pezzo loro”, si rispose senza esitazione. “E questo col cavolo che puoi farlo con i gatti. Quelli anche morissero di fame davanti al pane ti volterebbero la schiena”, aggiunse poi con un moto di impazienza verso i gatti. “Mentre i cani, invece, lo mangiano insieme a te come in un rito comune. Una specie di Comunione che  ti fa  sentire in un certo senso  innocente come loro. O, se non innocente, almeno redimibile”, concluse.  
“Sì”, riprese convinto, “nessun uomo è mai morto mentre dà da mangiare al suo cane. Perchè anche se fosse  il peggior peccatore e assassino perfino il Dio più offeso trattiene sempre per un momento la sua mano prima di colpire un uomo che sta dando da mangiare al suo cane. Mentre se invece stai dando da mangiare a un gatto quello il suo fulmine te lo scarica addosso lo stesso magari perchè  anche lui è un po’ geloso dalla loro inafferrabilità”, concluse sentendo che, adesso, stava sorridendo di simpatia verso i gatti.
Riprese a pensare ai cani. ”E poi mi commuovono perché essendo stati creati  prima dell’uomo hanno l’aria di avere saputo prima di noi qualcosa di importante di cui cercano di informarci ogni volta che ci guardano nel timore che noi possiamo non saperlo e, nello stesso tempo, aspettando una risposta. Ma di cosa vogliono avvertirci? E che risposta vogliono?” Ci pensò sopra. “ Chi lo sa. Che si deve morire, forse”, si trovò a rispondersi. “Sì, a differenza di tutti gli altri animali i cani sembrano sapere che la vita ha un termine e con tutta probabilità, avendolo saputo prima di noi, è questo  di cui cercano di avvertirci. Così come forse è questo che ci chiedono quando ci guardano coi loro occhi attenti e umidi. Se noi, da bravi padroni, non possiamo farci niente per impedirlo”, concluse con un improvviso, irragionevole groppo alla gola e contento che la strada fosse deserta e non ci fosse nessuno ad accorgersene.
Non avrebbe potuto dire perché gli fosse venuto quel groppo alla gola. Forse perché la bellissima strada che stava percorrendo insieme ai suoi cani   terminava nel buio, probabilmente. “ E tutto questo li porta a starci vicini e ad amarci più di quanto li potremo mai amare noi”, si disse cercando di cambiare discorso per non stare a pensare troppo alla bellissima strada che finiva nel buio. “Qualunque cosa anche di crudele potremo fargli”.
    Sull’amore dei cani per gli uomini gli veniva in mente una storia terribile. Quella della proprietaria di una trattoria  in un posto selvaggio della Sicilia che - stando al racconto di un testimone che aveva assistito all’orrore senza poter intervenire -  aveva ammazzato a colpi di badile una cagna di cui voleva liberarsi. Bene, stando a quella testimonianza era venuto a sapere che, mentre la padrona la stava ammazzando a colpi di badile, la cagna, invece di fuggire, aveva continuato a trascinarsi ai suoi piedi uggiolando. Come per chiederle di smettere. Finchè, massacrata, era morta torcendosi.
Era una storia che ogni volta che ci pensava lo riempiva di un odio profondo, per quella donna. E al quale, come antidoto al suo odio, doveva sempre ricorrere a un’altra immagine. Quella di sua figlia quindicenne che, con straziante coraggio, comprava in un bar un’ultima brioche al volpino della sua infanzia prima di portarlo, ormai vecchio e cieco, dal veterinario per l’ultima iniezione. Sì, sua figlia quindicenne, quella brioche e quel  coraggio erano la sola cosa che, dopo l’episodio della donna in Sicilia, riuscissero, almeno in fatto di cani, a fargli restituire rispetto al genere umano.
Sì, in effetti l’amore dei cani anche verso i più orrendi degli umani era un altro argomento abbastanza decisivo, per spiegare la commozione che gli destavano. A meno che non avesse ragione la sua amica, naturalmente.
   “Tu ami i cani perché stai invecchiando e quindi diventi sentimentale come loro”, aveva infatti detto la sua amica resa un po’ crudele dalla foga della discussione. Ma era una balla. Sì, era vero che da giovani forse si amano di più i gatti - da giovani si è più indipendenti e quindi più simili ai gatti che ai cani - ma come la metteva la sua un po’ crudele amica con le vecchie, a volte vecchissime gattare che proprio in quella antica e bellissima strada ogni giorno al tramonto si inginocchiavano con le loro ciotole per dare da mangiare ai gatti  dei vicoli intorno?   
    Sempre più seccato guardò i suoi cani. Padre e figlio lo precedevano in accurata esplorazione olfattiva. Come per sincerarsi bene dove lui, dietro di loro nel buio della strada,  avrebbe messo  i suoi passi e fermandosi di tanto in tanto a aspettarlo. E allora, di colpo, si diede la risposta definitiva. “Mi commuovono perché vivono meno di noi e ci precedono nel grande buio. Lealmente,” si disse.
Nella sua fantasia l’amica aveva replicato immediatamente. “ Balle, anche i gatti vivono meno di noi”. Ma lui non si era lasciato mettere nel sacco e aveva risposto a sua volta immediatamente.” Sì ma i gatti ti precedono andandosene per fatti loro. Mentre i cani ti fanno strada”,si era risposto Poi, non del tutto certo della sua replica a proposito dei gatti, aveva improvvisamente pensato che per certi uomini la vita alla fine non è altro che una più o meno lunga passeggiata insieme ai loro cani e che lui poteva considerarsi uno di loro. Gli piaceva pensare a sè stesso in quei termini. E, di conseguenza, aveva continuato a guardare i suoi due cani precederlo sentendosi per un momento come se, al pari dei suoi grugnenti progenitori che avevano vissuto in simbiosi coi loro cani, invece di stare camminando tra alti e antichi palazzi pieni di storia, lo stesse facendo in una savana piena di pericoli. Verso il buio. “Sì, va bene così”, si disse pensando un po’ a tutta la sua vita come vissuta in una savana.
Poi stabilì che ormai, avesse o no ragione la sua amica, era ora di finirla con quei pensieri oziosi e in qualche modo sentimentali e tornare a casa. Ma c’era qualcosa a impedirglielo. L’inaccettabile sensazione di avere fatto un torto ai gatti. E allora decise di dare l’incontro del tutto alla pari e di concludere  con un pensiero conciliante. Che, comunque stessero le cose, cani e gatti erano le cose migliori che Dio avesse regalato agli uomini  per aiutarli a vivere e che se c’era qualcosa che poteva augurare ai suoi posteri era che  potessero continuare ad averli vicino anche nel fosco futuro che li aspettava. A ritardare, se non altro con la loro ancestrale attività di cacciatori, il momento in cui l’uomo, al termine della sua laboriosa opera di distruzione del mondo, lo avrebbe lasciato in eredità ai topi.
Restò un momento a pensarci, a quel mondo di topi. Contento di sapere che lui non ci sarebbe stato. Poi, tornò a guardare  i suoi cani. Continuavano a precederlo proseguendo la loro coscienziosa esplorazione olfattiva. Sgombrandogli la strada. Proteggendo i suoi passi. Si voltarono verso di lui  quando li chiamò per nome ad alta voce. Guardandolo. In attesa. Con la loro eterna domanda negli occhi attenti e umidi.
“No ragazzi, non posso farci niente”, si sentì rispondere con un breve sorriso nel buio della bellissima strada. Poi si battè una mano sulla gamba e loro, capendo che la passeggiata era finita, lo raggiunsero cominciando a seguirlo trotterellando. Questa volta alle sue spalle. Fedelmente. Come sempre. Pensando chissà cosa. Ma forse soltanto, con tutta probabilità, facendosi semplicemente la stessa domanda che stava facendosi lui.  Se dopo la cena, a casa, fosse avanzato un bel pezzo di pane bianco senza sale.

G.C.